Guarda me. Gli occhi mi sfiorano, viola, con una luce intensa, misteriosa. Il colore dei fiori di lavanda. La sconosciuta è così vicina da sentirne il profumo. Ricorda i prati e le corse nel vento. Posso vedere il gesto nervoso con cui si aggiusta i capelli. Biondi. Però è lontana, perché non posso andare accanto a lei. A ogni mio tentativo si confonde di nuovo tra la folla. Una macchia bionda e viola tra questa gente chiassosa. La folla dell’Ippodromo, la sera.
Non ho mai visto tanti spettatori come per questa corsa e non ho mai visto una donna così bella. Deve avere mani morbide e tiepide, per accarezzarti. Invece stringono il programma delle corse.
Si allontana distratta, con l’attenzione ormai catalizzata altrove. Eppure mi ha visto, ho sentito uno sguardo viola bruciarmi sul collo anche mentre non ero più rivolto a lei. Forse mi ha scelto.
È sola, nessun maschio in giacca di lino e portafoglio rigonfio al fianco.
Va verso il picchetto, a puntare sulla prossima corsa. Non riesco proprio a seguirla. Ho già nostalgia di quello sguardo e delle carezze che non mi ha dato. Ma potrebbe. “Fantini in sella”. Chiamano i cavalli per la quarta corsa. La corsa a vendere. “Cavalli in pista”. Gli altoparlanti sono fastidiosi, stasera. Vorrei avere nelle orecchie solo il rumore di ruscelli che scorrono, nei prati viola di fiori. È salita in tribuna, ha un piccolo binocolo. Forse lo punterà su di me. “I cavalli sono all’ordine dello starter”. Inizia la corsa. “Partiti”. Zoccoli, frustini, zolle d’erba, le urla dei giocatori. Partiamo: le mie zampe, più leggere che mai. E veloci. Corrono come sui prati. Dove sono gli altri? Sento, dietro di me, rumore di fango calpestato, lontano. Non i respiri umidi dei cavalli, solo le redini leggere sul collo e le piccole cosce del mio amico in giubba colorata. Qualche voce dalla tribuna.
Ho vinto, esultano i pochi che avevano puntato su di me. Le mani del fantino mi sfiorano il collo: cuoio bagnato di sudore. O sono io che sono fradicio e il suo calore si confonde con l’eccitazione che il piccolo trotto degli zoccoli non calma, e neppure l’aria profumata che mi fischia nelle narici.
Ho vinto e il fieno croccante sarà doppio. Forse lei ha vinto con me, ed è una corsa a vendere. Eccola. Sventola felice il programma e mi fissa con i suoi occhi viola. Esco dalla pista accanto a lei. Avevo ragione: ha mani morbide.
Ci avviamo insieme al tondino. Sfilerò con gli altri mentre inizierà l’asta. E lei sarà la mia compratrice e io il suo nuovo amore.

di Angela Borghi

Il racconto del giorno feriale (dagli autori della nostra scuola di scrittura SCRIVERE IL CORTO)


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Il fiume scorre lento frusciando sotto i ponti, la luna splende in cielo, dorme tutta la città. Solo va un uomo in frac

Notte di luna, notte tranquilla. Le strade sono vuote, la città dorme, finalmente.
I due poliziotti fumano in silenzio sul ponte, l’auto posteggiata poco lontano. Ancora qualche ora alla fine del turno. Dal buio emerge un uomo, lo sparato candido della camicia luccica nell’oscurità, i capelli gli accarezzano le spalle. Sotto al lampione ha lineamenti eleganti, mani dai movimenti armoniosi. Indossa un frac.
I due agenti si guardano, incerti se chiedergli i documenti.
– Mi fate accendere? – li anticipa lui – mi fermo sul ponte ad ascoltare il fiume, ad aspettare il mio amore. Attendo da tanti anni e questa notte verrà.
– È molto tardi, signore, per stare in giro. Qual è il suo nome? – Gli chiede il più deciso dei due.
-Ah, eccola! – risponde invece lui senza ascoltarli più.
Appare una donna accanto all’uomo in frac. E’ in lungo, l’abito nero le valorizza i capelli rossi e gli occhi chiari. In mano ha un violino.
Si baciano a lungo e poi si allontanano a passi silenziosi, scomparendo nel buio, prima che i due poliziotti aggiungano una parola, abbagliati dall’aura di bellezza e felicità della giovane coppia.
Dalla portiera aperta dell’auto di servizio giunge una voce metallica: codice sette, incidente stradale sul lungofiume, pattuglia dieci-quattro recarsi sul posto immediatamente.
Partono sgommando e si dimenticano dello strano incontro. L’incidente è grave, in quello che resta dell’abitacolo dell’auto giace l’anziana guidatrice, morta, ricoperta di frammenti minuscoli di vetro che brillano come stelle.
La sera dopo i due poliziotti sono ancora in servizio insieme. Si fermano a bere un caffè in un bar della periferia. Il più giovane trova un giornale aperto su un tavolino e gira qualche pagina, poi mostra al collega le scritte sotto una fotografia: morta in un incidente d’auto sul lungofiume Erica Sofia Gherardi vedova Lanza di Trabia. L’anziana signora era molto nota per essere stata, da giovanissima, il primo violino dell’orchestra dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia. Un’artista di talento con un grande avvenire. Alla tragica e prematura scomparsa del marito, il maestro Raimondo Lanza di Trabia, aveva fatto scalpore la decisione della musicista di abbandonare l’orchestra e di non suonare mai più il violino.
I due poliziotti si guardano confusi, non sanno che cosa dire. Dalla pagina due occhi chiari già visti li fissano con un sorriso complice.
(Ispirato a Vecchio frac, Domenico Modugno, 1959)

di Angela Borghi, Illustrazione di Marzia Nigro

Il racconto del giorno feriale (dagli autori della nostra scuola di scrittura SCRIVERE IL CORTO)


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Il cielo mi aveva aspettato, senza nuvole, per la arrampicata al Sass de Stria. Una salita ripida, tra le rocce, con il fiato che stentava, ma arrivato in cima mi sedetti ai piedi della croce e ritrovai il Lagazuoi, la Tofana, la Marmolada. Quel giorno dividevo però le Dolomiti con un altro uomo. Non ero solo, lassù.
Mi aveva rivolto la parola, lo sconosciuto, in un modo come se non fosse affatto uno sconosciuto. Un giovane, con il viso ovale da vecchio, il naso sottile e occhialini rotondi come non vedevo più dagli anni settanta. Mi raccontava un episodio della Grande Guerra. Pensai che fosse un’improbabile guida, messa lì ad accogliere i turisti, ma lo strano era che narrava in prima persona, come se avesse assistito agli eventi. Ma raccontava bene e io ero stregato dalle sue parole:
– … la selletta qui in basso era presidiata dagli Austriaci, il 3° reggimento dei Kaiserjäger. Perciò era importante che conquistassimo il Sass de Stria dove avevano sistemato un osservatorio. All’alba potevamo sorprenderli e proteggere, con il fuoco dall’alto, l’arrivo del nostro plotone. Ci offrimmo in quattordici volontari e partimmo dal Castello di Andraz la sera del 17 ottobre 1915. Iniziammo la scalata dalla parete occidentale che gli Austriaci ritenevano inaccessibile. Arrivammo, stremati, alle due di notte, e trovammo la cresta deserta. Ma, poco prima della luce, ci scoprì un gruppo di Kaiserjäger saliti all’osservatorio. Non riuscimmo a catturarli tutti e diedero l’allarme. Ci attaccarono in più di cinquanta quando il plotone non era ancora giunto. Ci riparammo nelle trincee ma era un inferno di fuoco. E il plotone tardava. –
Il discorso era terminato, bruscamente. Vidi che erano comparse delle nuvole grigie spinte da una brezza gelida. Avevo freddo, ma volevo ancora ascoltare.
– E poi? –
– Troverà la fine sui libri di storia. – mi disse sorridendo – ora è tardi, devo andare.-
E con due passi sparì dalla parte opposta alla via che avevo percorso io per salire.
– Come si chiama? – gridai assurdamente nella sua direzione, al suono che i suoi scarponi non avevano fatto, all’aria che non aveva trattenuto alcun odore, al terreno che non portava traccia del suo passaggio.
– Mario – mi rispose una voce, lontana come un’eco.
– Mario Fusetti –
E la fine della storia l’avevo poi trovata davvero, la storia di quel gruppo di coraggiosi che erano saliti al Sass de Stria e di cui pochi erano sopravvissuti. Il loro comandante, fulminato da un proiettile austriaco in piena fronte, era il sottotenente Mario Fusetti, il cui corpo giace ancora, senza riposo, nei crepacci del Sass de Stria.

di Angela Borghi, fotografia di Ettore Borghi

Il racconto del giorno feriale (dagli autori della nostra scuola di scrittura SCRIVERE IL CORTO)


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IO DOVEVO UCCIDERE *

Dedichiamo qualche riga ai serial killer, figure che popolano la letteratura di genere da un certo momento in poi. La colonizzazione è stata inevitabile se pensiamo alla loro presenza inquietante nella cronaca e al fascino che esercitano, come personificazione di ciò che è primordiale e irrazionale in noi. Si è giunti al termine serial killer a partire dagli anni ’80 negli Stati Uniti e da lì sono nate ulteriori definizioni e classificazioni anche se gli assassini seriali sono molto più antichi, e non solo aldilà dell’oceano. A noi però interessa il loro ingresso trionfale nei “gialli”, dall’efferato mister Hyde di Stevenson a Norman Bates del romanzo Psyco, reso immortale dal cinema, al protagonista di Profumo di Süskind. E che dire dell’iconico Hannibal Lecter di Harris?

Per costruire il nostro serial killer possiamo ispirarci a quelli reali grazie ai quali siamo venuti a conoscenza di orrori inimmaginabili: feticismi, cannibalismo, devianze sessuali, necrofilia… Fondamentale il rimando alle motivazioni dell’assassino, anche se non si parla di movente in senso classico. Nelle nostre pagine dobbiamo approfondire la logica che ne determina il comportamento, l’esigenza di dominio, accennare a traumi infantili quasi sempre presenti, a fattori scatenanti come insulti psicologici ripetuti. Dalla realtà arrivano suggestioni abbondanti che ci aiutano a comporre il nostro personaggio e, quindi, la trama della storia. Si può sbrigliare la fantasia sulla tipologia delle vittime (donne, bambini ecc.), sulla presenza di sadismi, sulla tecnica di caccia, sulla scelta dell’arma, sull’organizzazione dei delitti. Come sempre però suggerisco moderazione: è più efficace catturare il lettore non con effetti speciali ma con arte sottile che lo seduca.

A volte è interessante porre l’accento sulla sfida con chi indaga. In questi tipi di gialli possiamo introdurre particolari investigatori come profiler o psichiatri. Il lettore si divertirà alle prese con messaggi lasciati sulla scena del crimine, modus operandi speciali, veri e propri enigmi da risolvere.

Un bel ritratto di serial killer lo trovate in Le strade dell’innocenza di James Ellroy:

Passò ore a fare pratica di judo e karate e a tirare al poligono, poi a fare flessioni, sollevamenti e addominali finché il corpo non gli diventò un unico dolore pesante. Tutto ciò servì solo da palliativo e si sentiva ancora tormentato dagli incubi. Andare a prendere giovani in strada era per lui come mimare oscene overtures: come banchi di nubi contorte che scrivevano il suo nome in modo che tutti gli abitanti di Los Angeles potessero leggerlo.”

* Clarence Hunt 1953

Angela Borghi, medico, ha lavorato in ospedale e ora si dedica alle sue passioni, soprattutto scrivere. Ha partecipato ad antologie di racconti e pubblicato quattro romanzi gialli: Delitto al Sacro monte, I misteri del convento di Casbeno, Che domenica bestiale e La ragazza con il vestito azzurro.


continua il 18 aprile 2024


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Mi appare un’ombra lunghissima con un’aureola di luce, i capelli sulle spalle, le mani nelle tasche del cappotto, una ragazza in piedi davanti a un lampione. Non parla e io ho poco fiato, seduto su una panchina del Viale delle Cappelle.
È una sera di fine inverno: il cielo nero come piombo, l’aria fredda e immobile e nessun passo sull’acciottolato. Mi sono allontanato dalle luci della città, dalle persone a cui non so più parlare e da quelle che non mi interessa ascoltare, dalla vita non più mia, dai giorni passati irripetibili. Anni fa ho rinunciato a una donna dal sorriso e dal nome luminosi come l’estate. Negli altri amori non ho più trovato lo stesso incanto. Stasera mi è tornata la voglia di ripercorrere una delle nostre passeggiate. La primavera però è lontana e mentre cammino l’aria gelida è penetrata dentro di me, coagulandosi in un blocco che, a metà della salita, ha cominciato a pesarmi sul petto. Per questo mi sono seduto, senza respiro.
Poi dal buio è sbucata la donna alta con il cappotto nero e la guardo, da vicino. Il battito del cuore accelera e, finalmente, trovo le parole.
– Clara! Sei tu. Scusami se non mi alzo, ma non sono sicuro di riuscire. Mi ha preso una grande stanchezza. Che strano rivederti stasera, dopo tanti anni, quando sto pensando a te. Ho ricordato le nostre passeggiate e i cieli dalle mille stelle, quando salivamo dal viale fino al Sacro Monte. Arrivavamo fino al bar appollaiato sul panorama e sorseggiavamo il liquore asprigno, restando vicini. Sono sicuro che ricordi le nostre ore insieme. Ti vesti di nero come allora, e ti sta molto bene. Per anni ho sognato di incontrarti di nuovo. Ma eri sempre su un’altra strada. Sono contento di rivederti qui. Sei silenziosa e non mi rispondi, niente parole inutili tra noi. –
Un sorrisole illumina il volto e il buio intorno. Poi Clara allunga una mano verso di me. La mia è fredda, intorpidita, ma riesce ad afferrare la sua. Il calore di quel contatto mi fa sentire in pace, sereno, quasi felice dopo tanto tempo.
Non la lascio anche quando ritorna, insopportabile, quel peso sul petto.

Angelica si allontana dalla panchina, stringendosi dentro al cappotto e tentando di sentire meno freddo. Risale il viale correndo. Deve arrivare al paese, raggiungere qualcuno, chiedere aiuto. Non c’è nessuno stasera sul percorso e lei si maledice per aver deciso di lasciare a casa il cellulare.Voleva dimenticarsi il mondo per una sera e non aveva voglia di essere ritrovata da nessuno. È rimasta sconcertata dalle parole dello sconosciuto, così diverse dai discorsi che è abituata ad ascoltare. E questo le ha fatto morire sulle labbra una risposta. Non gli ha detto che si sbaglia, che lei non è quella Clara. In fondo che cosa importa, in quel momento in cui lui insegue ricordi e sentimenti lasciati indietro. La cosa giusta da offrire era il silenzio e la sua mano. Il contatto lo ha rasserenato.
Ora è adagiato sulla panchina, in attesa dei soccorsi, con un’espressione tranquilla. Lei però ha capito che non c’è bisogno di cure mediche. Non c’è più tempo.
Si avvicinano le prime luci del paese e quelle dell’unico bar aperto, al termine del viale. Si ferma a prendere fiato e solleva il viso verso il cielo scuro.
Scendono, silenziosi e morbidi, i primi fiocchi di neve.

di Angela Borghi

Il racconto del giorno feriale (dagli autori della nostra scuola di scrittura SCRIVERE IL CORTO)


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La tavola è ricoperta di piatti: carni e verdure spiccano colorati sulla tovaglia bianca, i bicchieri tintinnano allegri e tutti si servono dalle zuppiere stracolme. Rido e mangio senza pensieri quando una voce improvvisa, dura, spegne il mio sogno e i colori. Sono sveglio, devo lasciare andare le ultime immagini. Rifaccio la cuccetta in fretta. Esco dalla baracca in un mondo in bianco, nero e grigio. Fa freddo. Non è ancora l’alba e il cielo è senza stelle. Mi metto in coda insieme agli altri per il pezzo di pane, la razione di un giorno, che mangeremo a piccoli morsi per farlo durare di più e ne raccoglieremo le briciole.
Anche il pane è grigio, senza colore e senza profumo. Ci sembra buonissimo.
Davanti a me il mio vicino di cuccetta, 174517, un ragazzo di meno di vent’anni, barcolla. Cerco di sostenerlo perché non cada, senza farmi vedere da nessuno, con un gesto che si perda nel buio. Lui si volta e mi guarda in silenzio. La faccia è un teschio, le braccia e le gambe sono quelle di uno scheletro. Gli occhi hanno dentro lo scuro del cielo. Non ce la farà.
In lontananza strie grigie di nuvole si confondono con la neve sporca che ricopre il terreno. Dietro i reticolati file di alberi dai rami nudi coprono i campi alla vista.
Prendo il mio pezzo di pane e resto vicino a lui mentre ci allontaniamo dalla zona della distribuzione. Aspetto che l’Unterscharfűhrerse ne vada e che i soldati guardino da un’altra parte. Molte cose sono proibite, qui.
Camminiamo insieme, il suo passo è più incerto e più lento.
Mi decido, stacco un pezzo del mio pane. Grosso. Lo tendo al ragazzo senza parlare. Forse non ce la farà. E nemmeno io.
Ma quando tiene tra le mani il pezzo di pane, per la prima volta lo vedo sorridere anche con gli occhi. Non sono più del colore del fango, ora sono blu.

(Giornata della Memoria, 27 gennaio)

di Angela Borghi

Il racconto del giorno feriale (dagli autori della nostra scuola di scrittura SCRIVERE IL CORTO)


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Le ultime ore della notte schiarivano il cielo quando i due uomini arrivarono ai piedi della collina e nell’ombra delle grandi sculture. Imhotep, il più valente architetto e astronomo del paese e il gran sacerdote Vennofer, curatore del patrimonio reale si fermarono a guardare l’opera dedicata alla gloria di Ramses II, protettore dell’Egitto, eletto di Ra. Non era ancora terminata ma quel giorno verificavano la riuscita di una magia che avrebbe suscitato la meraviglia del Faraone. Secondo i calcoli dell’architetto all’alba la luce avrebbe illuminato le quattro statue scolpite all’interno del tempio, sulla parete del Santuario. Solo in due giorni all’anno era possibile: nella data di nascita del re e nel mese di Tybi, anniversario dell’incoronazione, giorno d’inizio delle inondazioni.
Entrarono e si sedettero su una pietra. Per l’emozione non sentivano il gelo della roccia e non sprecavano parole.
Quando i raggi del sole penetrarono dalla porta scavata nella montagna colpirono le statue di Amon-Ra e di Ramses, poi si allargarono su quella di Ra-Harakhti ma lasciarono sempre in ombra l’ultima, quella del dio della guerra Montu.
Le parole di Vennofer furono più fredde dell’aria del santuario:
– Come lo spiegherai al Faraone questo errore? Darà in pasto il tuo cuore ai coccodrilli.Hai poche lune per rimediare.Ti consiglio di farlo!
Non aggiunse altro. Lo lasciò lì, sulla roccia, sgomento.
Lo sconforto di Imhotep durò poco, poi nella mente si fece strada una soluzione. Era audace ma non aveva scelta: voleva conservare il posto e la vita. Radunò gli scultori e i tagliapietra più abili e veloci e promise loro un onorario principesco se avessero realizzato la sua idea.
Il giorno stabilito Ramses e il seguito vennero al tempio rupestre. Alla vista della magnifica costruzione bisbigli di eccitazione e meraviglia sorsero tra i dignitari, le donne, le guardie del re. Vennofer aveva il volto duro come la roccia. Il Faraone taceva.
Imhotep tremava.
All’alba i raggi di luce colorarono di rosa la terra del deserto, poi entrarono nella montagna, lambirono il dio del sole con la corona di piume, la testa di falco di Ra-Harakhtie abbracciarono il volto del divino Ramses. Lasciarono ancora in ombra la quarta statua, che non era più quella del dio della guerra ma di Ptah, dio dei trapassati, con la stretta barba e lo scettro.
L’architetto si fece coraggio e disse:
– Ptah, signore dell’oltretomba e amico delle tenebre non può essere toccato dalla luce – Ramses sorrise e mosse il bastone in segno di approvazione. Imhotep riprese a respirare.

di Angela Borghi, illustrazione di Marzia Nigro

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Yorgos aveva un segreto. Un amore, nascosto nella capanna degli attrezzi ai bordi del campo. La sua fanciulla di marmo. Senza braccia e divisa in due, tagliata poco sotto il busto candido. L’aveva riconosciuta appena pulita dalla terra che la ricopriva, la ricordava dai pochi anni di scuola: Afrodite, la dea dell’amore.
In una mattina di aprile piena di sole era salito dal sentiero in mezzo agli ulivi fino al suo piccolo podere sui terrazzamenti. Da lassù si vedeva il mare turchese di Milos entrare nelle insenature tra le rocce bianche e il giallo dei prati fioriti. Quest’anno aveva deciso di lavorare anche una parte di campo che non aveva mai zappato, perché più scoscesa e vicino alla montagna. E lì, dopo qualche ora di fatica, aveva trovato in un anfratto la statua addormentata. Un nodo di emozione gli stringeva la gola mentre la liberava dalla polvere, con gesti lenti e amorevoli, accarezzando i lineamenti dolci, il seno perfetto, i capelli. Il cuore tornava a battere forte ogni volta che andava a trovarla, nell’angolo della capanna dove l’aveva subito nascosta, coperta da una tela di sacco.
Ora Yorgos aveva paura. In paese era corsa la voce del suo ritrovamento. Forse qualcuno l’aveva visto, là sul campo, l’aveva spiato e aveva raccontato. Le navi degli ottomani riempivano il golfo e pattuglie di soldati controllavano quasi tutto sull’isola. Così una mattina presto si trovò due ufficiali alle porte di casa, con i loro cappelli ornati di lunghi fiocchi e i larghi pantaloni.
– Yorgos Kentrotas! Portaci a vedere la statua antica che hai trovato. –
Capì in un momento che l’aveva perduta.
La sera, quando ormai i turchi avevano sequestrato la sua Afrodite, sedeva sulla soglia di casa e si sentiva ancora più solo di quanto era stato negli ultimi anni, dopo la morte della moglie. Aspettò il tramonto e poi i suoi occhi, puntati al cielo viola che si colorava di nero, trovarono la stella che si illuminava per prima.Quella sera la sua luce era solo per lui.

di Angela Borghi, illustrazione Marzia Nigro

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Silvano fece il discorso più lungo della sua vita un martedì d’inverno, dopo il tramonto, mentre la luce viola trasformava il cielo. Aveva iniziato a parlare alla ragazza d’impulso, senza potersi trattenere. I suoi capelli erano così lucidi. Dovevano essere morbidissimi ma non aveva ancora osato toccarli. Era un discorso d’amore, senza pudore né esitazioni, aldilà della timidezza che l’aveva sempre attanagliato davanti alle donne incontrate. Molte lo avevano colpito al cuore. Qualcuna gli era piaciuta alla prima parola pronunciata dalle labbra rosse sfrontate o perché gli occhi sfuggivano all’incontro con i suoi, di una aveva amato il vederle compiere gesti banali, come salutare con la mano, per altre era stato un movimento con la testa, una risata squillante a conquistarlo. Ma non lo aveva mai detto, a loro. Poche volte aveva pensato con speranza a un contatto, alla nascita di un amore. Era sempre scappato impaurito, talvolta senza neppure dire il suo nome. Era giovane e non era brutto, ma per la gente era come se fosse senza età e peso, senza colori e presenza. Tutti lo sfioravano ma non si accorgevano di lui. E lui si teneva lontano dagli altri, preferiva il silenzio, la solitudine e il lavoro, il suo rifugio. In quel luogo prendeva vita e acquistava sicurezza, si muoveva disinvolto tra gli strumenti del mestiere, annusava con un brivido il profumo dei fiori e del legno. Compiva i gesti che servivano con competenza e precisione. Quel martedì, finalmente, lì, aveva incontrato l’amore. Una specie di euforia l’aveva colto appena aveva visto la ragazza e dopo qualche prima parola impacciata non si era più fermato. Le aveva raccontato mille cose, parlato dei suoi gusti, narrato le sue storie, i sogni, l’intera vita. Senza che si accorgessero era sceso il crepuscolo ma erano rimasti uno di fronte all’altra. Lui non aveva neppure acceso la luce nella stanza. Lei aveva gli occhi come le acque di un lago, tranquilli e profondi, i lineamenti dolci, la pelle bianca e liscia. Le mani eleganti. Era vestita di seta. Sembrava venuta da un altro mondo, con il suo silenzio. Era morta. Quando finì la dichiarazione d’amore Silvano iniziò con dolcezza a massaggiarla con la cera modellante, poi passò un velo di crema per reidratarla, le pennellò il viso con il fondo tinta, le chiuse gli occhi e le diede un lieve bacio sulle labbra fredde.

di Angela Borghi

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