VINO E SCRITTURA, la qualità si riconosce

Dico a mia moglie di prendere dallo scaffale in cantina una bottiglia, di incartarla con un foglio di alluminio, in modo che io non veda l’etichetta, e di portarmela a tavola. L’assaggio, e riconosco il Re dei vini, il Barolo. Mia moglie ha portato un’altra bottiglia, con lo stesso sistema. È un Barbaresco, il fratello minore del Barolo, che io a volte preferisco, perché è meno tannico. E poi lei ha esagerato, e ne ha portata un’altra, il Gattinara lo riconosco da lontano, è il vino che in assoluto preferisco. Sono cresciuto a Spanna e Gattinara, quando avevo quindici anni e s’incomincia a bere vino, dopo quel bicchiere di acqua e vino che mi era stato concesso a dieci.

E adesso fate la stessa cosa con i libri che stanno sugli scaffali della vostra libreria. Non guardate il titolo, prendete e aprite a caso. I romanzi buoni sono ben strutturati, come i vini. I grandi autori si riconoscono. Dal colore, dal profumo, dal gusto delle parole.

Continua il 12 ottobre

Abramo Vane, giornalista e scrittore, insegna alla Scuola di Scittura delle Edizioni IL CAVEDIO. Ha pubblicato libri di narrativa, d’arte, di poesia.

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IL ROMANZO, un divenire continuo

Se leggiamo i critici, com’è giusto che sia, e li confrontiamo nel tempo, ciò che hanno detto fra di loro trent’anni fa e ciò che dicono oggi, leggeremo un po’ di tutto.

La crisi del romanzo che ogni tanto salta fuori, ciclicamente (e non è il ciclo di cui parlava la professoressa di chimica), la ricerca di riferimenti che cadono davanti all’esclamazione del re nudo, i saputelli che condizionano le coscienze, il potere delle case editrici che si adeguano al pensiero dominante, i valori della tradizione messi a tacere davanti al dio denaro… tutto vero!

E ripartiamo da qui, per capire la plasticità del romanzo. Il nostro lavoro quotidiano alla ricerca di formule e di strutture si rispecchia in una visione generale su questo tipo di espressione. Il romanzo è in continuo divenire. Si alimenta di ogni altra forma letteraria e artistica, e non importa se questa vive in momenti di stagnazione, perché il romanzo è in grado di rinnovarla, di donarle ancora il soffio vitale.

Per questo, nella sua essenza, il romanzo appare sempre incompiuto. E sempre attuale.

E poi c’è la tecnologia che avanza e si impone, fa piazza pulita delle improvvisazioni. Il romanzo resiste, e non teme niente e nessuno.

Continua il 5 ottobre

Abramo Vane, giornalista e scrittore, insegna alla Scuola di Scittura delle Edizioni IL CAVEDIO. Ha pubblicato libri di narrativa, d’arte, di poesia.

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PSICOLOGIA, tra cui i nostri personaggi

Ognuno di noi ha un modo di essere, e ognuno ha i suoi problemi. A volte cerchiamo aiuto per risolverli. Abbiamo perso il giusto equilibrio, non sopportiamo la realtà, siamo deboli.

É quello che succede ai nostri personaggi. Li abbiamo pensati in un attimo d’intuizione artistica, li abbiamo creati. Danno soddisfazione, e problemi. Da loro dipende la riuscita del nostro lavoro. Diventeranno famosi o rimarranno imperfetti su una pagina che è solo uno scarabocchio di parole?

Qualcuno la fa comoda. Buoni da una parte e cattivi dall’altra. Psicologie semplici. Storie facili da raccontare, ma spesso superficiali, se non banali. La realtà del mondo e degli uomini è diversa. Le pagine già scritte intorno a noi, e che noi vorremmo interpretare con originalità e ingegno, mostrano personaggi dalla psicologia complessa.

Le brave persone che conosciamo sono davvero brave persone, ma ombre segrete abitano i loro cuori, e quelli che nella quotidianità, per quanto possibile, evitiamo di incontrare hanno qualità che dovremmo considerare. Così è l’umanità.

E per quanto riguarda il nostro impegno di sapere come stanno le cose, siamo in grado di creare psicologie credibili o ci accontentiamo di storielle con stili e strutture che giusto stanno in piedi e ci illudono di essere scrittori?

Continua il 28 settembre

Abramo Vane, giornalista e scrittore, insegna alla Scuola di Scittura delle Edizioni IL CAVEDIO. Ha pubblicato libri di narrativa, d’arte, di poesia.

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di Gianmarco Pellattiero

È una storia speciale quella che mi appresto a raccontare, fatta di angoscia, speranza e stupore.

Lucia, cinque anni, è ricoverata all’ospedale Gaslini di Genova, noto per la competenza dei suoi operatori sanitari. Eppure, la capacità professionale è inutile se il fondo del baratro è vicino e un sorriso è più efficace di un farmaco costoso. Certo, un tumore non può essere sconfitto da una manciata di legumi, ma a Natale, credetemi, tutto può succedere.

La sera del 18 dicembre Babbo Natale entra nella stanza di Lucia; la sua presenza è davvero insolita, dato che al 25 mancano ancora molti giorni. Sarà uno dei numerosi volontari presenti nei reparti, pensano i genitori della bambina. Ma le stranezze non finiscono qui, perché l’uomo vestito di rosso e con la barba bianca, non porta a Lucia dei pacchi, bensì sette fagioli, ognuno appoggiato su una base di cotone idrofilo, all’interno di un vasetto.

«Cara Lucia, ho bisogno del tuo aiuto. Ti chiedo di annaffiare i fagioli tutte le mattine e mentre li bagni immagina sette abeti, addobbati con dei festoni stupendi e tante luci colorate. Se esaudirai la mia richiesta, la mattina di Natale avrai una meravigliosa sorpresa: durante la notte verrà un folletto a prenderli e li pianterà nel terreno a lato dell’edificio. E vedrai, ogni tuo desiderio si realizzerà.»

La bambina, estasiata dalla presenza di Babbo Natale, annuisce, mentre lo vede uscire dalla stanza. Un sorriso illumina il suo viso, è la prima volta dopo tanti mesi di sofferenza. La settimana passa veloce, le crisi sono sempre più frequenti. Per i medici la fine è vicina. Nel frattempo, grazie allo zelo di Lucia, sono nati dei bellissimi germogli.

È la mattina di Natale, la flebile voce della figlia attira l’attenzione dei genitori. I vasetti contenenti i fagioli sono spariti! Lucia chiede di alzare la tapparella. Grande è il suo stupore nel vedere sette abeti, illuminati e addobbati, proprio come li aveva immaginati. Babbo Natale ha mantenuto la sua promessa.

Sono passati ormai 40 anni; i genitori della bambina conservano nei loro cuori il ricordo del miracolo avvenuto in ospedale. E sorridono quando, nell’ultima settimana di avvento, vedono i nipoti preparare sette vasetti, contenenti altrettanti fagioli, che il 25 dicembre saranno piantati nel terreno da un folletto di nome Lucia.

Ovunque i bambini e gli adulti crederanno alle mie promesse, il seme della speranza genererà tanti alberi magici e prodigi inspiegabili. Parola di Babbo Natale.

Gianmarco Pellattiero vive a Malnate. Nel suo repertorio sono presenti numerosi racconti brevi, poesie, monologhi teatrali e alcuni romanzi, tra cui “E mi ritrovai a Malnate” del 2021 e “Cloe e l’enneagramma d’Oro” del 2022.

Selezione di racconti da XI Concorso “Il Corto letterario e l’illustrazione”, NARRATIVA (Scrivere il corto) ALBERI DAL MONDO ( Sezione dedicata a Maniglio Botti)

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di Monia Casadei

A distanza di mesi, lì si sentiva ancora un deportato.

Il tempo trascorreva in attesa della domenica (non tutte) in cui i nipoti avrebbero varcato l’uscio col passo indolente – una gita a Mauthausen avrebbe destato maggior entusiasmo.

Nel frattempo, avendone a disposizione in quantità, la mente spaziava su perimetri di ricordi: le balere e le gambe svelte delle donne; la mietitura e le fiasche di vino a fine giornata; la polenta tirata a mano nel paiolo (il suo profumo per tutta la cucina); i semi spansi nella paziente attesa di germogli; le partenze e i ritorni (a volte no ed è tragedia); le mani callose e i volti cotti; la perdita d’un figlio nella pancia, quando nascere non era una certezza; il raccolto distrutto dalla grandine, col figlio appeso al seno vuoto della madre (ed era stato inevitabile vendere la mucca per arrangiare i pasti); l’incendio della stalla che aveva concorso con la grandine, battendola; le nascite e le morti, a chiudere cerchi.

Come imbucati a una festa, lo visitavano persino gli anni della guerra, che aveva strappato a una generazione l’infanzia, la spensieratezza e, più spietata, gli affetti: la paura gialla per la vita della moglie e dei figli, come di chioccia che tenti di schermire i pulcini sotto l’ala; i bombardamenti a gramolare i campi e, in un istante orrido, anche la vita della sua bambina (che non aveva otto anni e non li avrebbe più compiuti); la fame cronica in risalita dal ventre alle tempie; i partigiani nascosti nelle perquisizioni dei tedeschi – che poi erano poco più che bambini anche loro, gli occhi molli sotto l’elmetto duro, e fu solidale rifocillarli con la polenta, figli d’altre madri disperate ad uopo vicariate oltre confine.

Seguì il duro lavoro di rinascere e, con l’amore che si riserva ai salvi, dare un futuro al figlio che, dopo gli studi, migrò a Berlino e si costruì una famiglia bionda.

E quando si potevano dire scampati, la moglie aveva preso a smangiarsi brani di vita partendo dalle bagatelle recenti fino alle memorie antiche – persino il suo volto, ormai per lei straniero, così da sentirsi masticato anche lui da quella maledetta malattia.

Ma peggio era stato il vuoto enorme che l’aveva sfiatato il giorno in cui lei non s’era più svegliata.

Ora, nella sala collettiva, le scene allo schermo lo sconsolavano: conosceva quella disperazione muta di rovine, di pietre sottosopra, di morti riversi, di lacrime e sguardi persi nella paura, nell’angoscia.

Nella rabbia. L’uomo era rimasto lo stesso. Forse sua moglie aveva ragione: la dimenticanza è la sola protezione possibile contro le umane atrocità senza memoria.

Monia Casadei, nata a Cesena, è psicoterapeuta. Scrivere per lei rappresenta una catarsi incoercibile fin dai tempi degli studi classici. Con poesie e racconti consegue il primo premio in diversi concorsi letterari nazionali e internazionali.

Selezione di racconti da XI Concorso “Il Corto letterario e l’illustrazione”, NARRATIVA (Scrivere il corto) RACCONTI DI GUERRA E DI PACE ( Sezione dedicata a Maniglio Botti)

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di Nicoletta Manetti

Non riusciva a dormire: un po’perché pensava che il babbo doveva ripartire il giorno dopo per il fronte, la sua licenza era già alla fine. Ma soprattutto non riusciva a dormire per la fame.

Avevano passato quel pomeriggio giù nel rifugio per l’allarme aereo, e a cena, dopo, da mangiare c’era solo una patata a testa. Ora il suo stomaco reclamava e si era alzata al buio per cercare qualcosa nella madia. Il corridoio era gelido, dalle imposte si insinuavano gli spifferi della guerra in inverno, taglienti da togliere il fiato.

Dalla soglia della cucina in penombra per il coprifuoco, intravide le due ombre abbracciate: la mamma, piccola e coi capelli scomposti, il babbo scalzo e le maniche della camicia arrotolate, con quel freddo. Senza musica, si bisbigliavano all’orecchio una canzone e ballavano.

Lei rimase immobile, zitta, non l’avevano vista e si nascose dietro la porta trattenendo il respiro. Il cuore le batteva all’impazzata, lei aveva fame, batteva i denti, e loro ballavano.

Sopra la credenza lì nell’ingresso vide la macchina fotografica di suo padre, grossa, col fodero di pelle marrone. La prese, l’aprì, ci guardò dentro, lui le aveva spiegato un giorno come funzionava, lei non l’aveva mai fatto, ma provò, li vide ondeggiare dentro l’obiettivo e scattò. Non si aspettava neppure lei quel lampo di luce azzurra che li fece voltare di scatto. Corse via, abbandonando la macchina fotografica sulla credenza. Si infilò di furia sotto la coperta, a pancia vuota. E loro di sicuro continuavano a ballare. Non capiva proprio cosa avessero da ballare. Le facevano rabbia, lei era sola, e aveva fame.

Un anno dopo, la mamma con una lettera in mano, seduta al tavolo di marmo di quella stessa cucina, terrea sotto la luce della lampada al neon, lo sguardo perso nel vuoto, le disse che il babbo non sarebbe più tornato. 

Sono passati tanti anni. E  ancora oggi, lei e sua madre, sono sedute in quella cucina. Ѐ domenica, la badante è libera, e per passare un po’ di tempo, ha tirato giù dall’armadio la scatola delle fotografie.

Si rigira tra le mani quella foto in bianco e nero, i bordi smerlati, le due facce sorprese dal flash. La passa a sua madre, che la prende con le mani che tremano, guarda a lungo, alza uno sguardo senza espressione: “Bei giovani, ballano. Li conosci?” chiede.

“Sì, li conosco bene. Sono bellissimi.”

Solo ora capisce quel loro ballare senza musica, nella penombra della cucina, a piedi scalzi, durante il coprifuoco.

Nicoletta Manetti, fiorentina, avvocato, si dedica da tempo alla scrittura, ottenendo diversi riconoscimenti. Recentemente ha pubblicato, per Ed. Pontecorboli, “Anja e Dostoevskij a Firenze”, “D. H. Lawrence e Frieda a Firenze” e “Gertrude Stein e Alice B.Toklas a Firenze”.

Selezione di racconti da XI Concorso “Il Corto letterario e l’illustrazione”, NARRATIVA (Scrivere il corto) RACCONTI DI GUERRA E DI PACE ( Sezione dedicata a Maniglio Botti)

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DI BIRRA E DI SCRITTURA, e anche di branzino

Come distinguere una buona birra da una ottima? Dalle mie parti c’è la Poretti, che ha inventato i 3, i 4, 5, 6 luppoli. Poi i 7, distinti nelle diverse stagioni, e via con gli 8, i 9 e, incredibile, i 10, esclusivamente in bottiglia da champagne. Più volte mi capita di sentire disquisire sull’argomento, qualcuno che sentenzia sulle differenze dei molteplici luppoli. Chi dice loro che ci sono ottime birre con un luppolo solo? Grande marketing, grande Poretti. Vendono una birra industriale facendo credere che sia artigianale. Tanto di cappello. Ha battuto tutte le altri industriali, che si ingegnano in trovate.

E la stessa cosa per gli scrittori che raggiungono la televisione. Cabarettisti che si trasformano, intrattenitori che primeggiano nelle classifiche. I soliti nomi. Lasciamo perdere, a loro non levo il cappello.

Ma allora come capire la differenza fra una birra e l’altra, fra un testo e un altro? Si procede con lo stesso metodo: il confronto sul posto. Sorseggiate una 4 luppoli, e poi bevete una lagher di proclamata tradizione oppure una buona artigianale (attenzione: non tutte le artigianali sono all’altezza del nome, ma quelle buone sono davvero un’altra cosa), e dite.

Assaggiate un branzino di allevamento, e vicino uno pescato in mare libero.

Leggete una pagina di un raccomandato della tv e quella di un classico. Ecco, questo è il metodo con il quale procedere per migliorare la nostra scrittura. 

La nostra scuola propone la riscrittura. Bene. Mettete a confronto la prima stesura con quella che ne è uscita dall’aula del corso o dal vostro stesso lavoro individuale. Confronto sul posto.

Detto ciò, confesso di preferire una vera birra artigianale, un branzino pescato in mare, una pagina scritta che gronda sudore.

Continua il 21 settembre

Abramo Vane, giornalista e scrittore, insegna alla Scuola di Scittura delle Edizioni IL CAVEDIO. Ha pubblicato libri di narrativa, d’arte, di poesia.

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di Amelia Di Corso

Sotto il balcone di casa dei miei, c’è un pezzo di terra. Affacciandomi dal primo piano, ho sempre visto questo rettangolo poco più ampio del balcone, circondato da un metro di muretto sopra il quale spuntano, a cornice, piante di alloro. Quando torno a casa e guardo giù, mi ricordo di me.

Sono cresciuta su questa lingua di terra. Quando ero piccola se un giocattolo cadeva giù, era un’avventura scendere e scavalcare il muro per recuperarlo, certe volte lo lanciavamo apposta; quando è morto il criceto di mia sorella, lo abbiamo messo in una scatola di scarpe e lo abbiamo seppellito lì, con una croce di rametti; da che io mi ricordi, dopo i pasti, le briciole sulla tovaglia sono sempre state sbattute al di là del balcone, in quel giardinetto. Una volta ci ha sorpresi una mano di foglie che salutava, spuntava più alta del nostro parapetto: uno stelo lungo e flessibile si muoveva al vento, era un limone altissimo, nato chissà come in quel terriccio e cresciuto fino a noi. Poi l’hanno tagliato a metà, ché per bellezza del palazzo nessuna pianta poteva superare l’alloro.

È stato in quel periodo che ho iniziato a porci attenzione. Buttavo giù tutti i noccioli della frutta che mangiavo. Intere estati in cui ho soffiato raffiche di semi, mentre appoggiata alla ringhiera mordevo fette di anguria, il succo che correva lungo le braccia fino ai gomiti, immersi in una pozza sul ferro battuto. Ma nessun cocomero o melone è mai nato, nessuna pesca, nessuna mela. Solo quel limone, sempre lì, ad altezze alterne. E allora le briciole della tovaglia sono diventate per lui, il gesto si è fatto rito, nutrire la terra, condividere il cibo; se non pioveva, anche l’acqua versavamo. E ci è venuta voglia di assaggiarli quei limoni, e l’attesa è stata lunga, ogni giorno erano sempre ancora verdi. Poi una mattina sono diventati gialli. I nostri limoni. Mica del palazzo, che ne sapevano quelli di sopra, loro in quel giardinetto non ci hanno lanciato che qualche molletta dei panni caduta per caso. Io e mia sorella siamo scese emozionate, bisbigliavamo senza motivo, quatte quatte abbiamo saltato il muretto, l’alloro che ci graffiava. I limoni erano nostri, ovvio, ma sembrava comunque un furto. Mi ricordo i brividi. Non esageriamo, solo i due più grandi, gli altri facciamoli crescere. Quando a casa abbiamo mostrato il bottino, papà non l’ha voluto assaggiare, chissà che ci sta in quella terra, sotto a un palazzo, a un centimetro dalla strada. Le nostre facce.

Poi mamma ci ha fatto una limonata fresca. È la più buona del mondo, ci siamo dette noi due, piazzate nelle nostre sedioline di plastica, davanti alla sigla di Bim Bum Bam. Bevila piano, così ti dura fino alla fine dei cartoni.

Amelia Di Corso. Sceneggiatrice e drammaturga. Fonda L’Avvelenata e produce contenuti teatrali, letterari e cinematografici. Crea il Premio Letterario L’Avvelenata (in giuria Daniele Mencarelli, Alessandra Carati, Paolo Zardi) e il podcast letterario «Aperte Virgolette».

Selezione di racconti da XI Concorso “Il Corto letterario e l’illustrazione”, NARRATIVA (Scrivere il corto) ALBERI DAL MONDO ( Sezione dedicata a Maniglio Botti)

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IL FUMO E L’ARROSTO, cosa ci interessa davvero?

Riprendo il concetto, e non per una semplice operazione di marketing. Nello slogan c’è tutta l’illusione legata allo scrivere, che è la grande barriera da abbattere per entrare in un percorso serio di formazione. Sembra assurdo, ma il fumo attira più dell’arrosto. Ci caschiamo tutti. Anch’io, confesso. A vent’anni lessi un annuncio sul Corriere della Sera e pensai che se avessi mandato le mie poesie sarei diventato ricco. Poi scoprii che i massimi poeti italiani, quelli che pubblicano con i grandi editori, vendono al massimo duemila copie, nonostante abbiano vinto una gran quantità di premi nazionali e internazionali, e compresa la candidatura al Nobel. Chiarisco un particolare. Il fumo non viene nemmeno dall’arrosto. È invece creato a parte con rametti di pino mugo, bacche di ginepro, essenze di erbe aromatiche. Se seguiamo la scia da dove proviene, l’arrosto non lo troveremo.

Continua il 14 settembre

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di Elisabetta Antichi

La donna si muove con passo lento; è anziana, fatica a camminare, ma vuole percorrere quella strada di campagna un’ultima volta. Non sente la stanchezza, non ha paura, sa solo che deve andare.

Quando raggiunge l’olivo, è stremata dalla fatica ma felice; l’albero è grande e rigoglioso, l’ombra la accoglie come una vecchia amica. La donna accarezza la corteccia, avvolge le braccia intorno al tronco, chiude gli occhi e accenna un sorriso.

Quando il gatto morì tra le sue braccia, la ragazza, seduta per terra in un angolo della casa, pianse a lungo. La ragazza e il gatto erano cresciuti insieme: si erano trovati lungo una strada di campagna in un giorno di primavera, lei una bambina solitaria, lui un mucchietto di pelo magro e sporco, e non si erano lasciati più. Lei se n’era presa cura come la creatura più preziosa dell’universo. Lui per tanti anni era stato il suo migliore amico, la presenza affettuosa, discreta e costante che non l’aveva mai fatta sentire sola.

La ragazza sapeva che questo momento sarebbe arrivato: il gatto aveva avuto una vita lunga e felice ma era vecchio e malato, era giusto lasciarlo andare. Eppure il suo cuore era spezzato; le era impossibile pensare che il suo compagno fosse andato via per sempre.

A un certo punto, asciugandosi le lacrime, la ragazza si alzò, avvolse il gatto nella sua coperta preferita e lo portò con sé in giardino. Colse un’oliva dall’albero, la ripulì, la preparò per la semina, la mise in una tasca. Infine prese una vanga e si incamminò verso la campagna.

La ragazza raggiunse un piccolo oliveto, poggiò il gatto per terra e scavò una buca in uno spazio tra gli alberi. Poi aprì la coperta, accarezzò il gatto per l’ultima volta, lo avvolse di nuovo nella coperta e lo depose con delicatezza nella buca. Lo coprì di terra e piantò il seme.

La ragazza rimase seduta accanto alla piccola tomba; immaginò l’olivo che sarebbe cresciuto da quel seme, dal suo amico perduto, e il suo dolore sembrò sollevarsi al pensiero di quella nuova vita.

La donna è ancora stretta al tronco dell’olivo. Sa che non dovrebbe essere lì: è consapevole del pericolo, quel pericolo con cui lei e il suo popolo sono abituati a convivere e che oggi è più forte che mai. La donna tiene l’albero tra le braccia come se potesse ancora stringere a sé il suo gatto, il compagno di tanti anni prima mai dimenticato, che tuttora vive nella chioma splendente, mossa dal vento e scintillante al sole.

La donna rimane abbracciata all’albero, con gli occhi chiusi e il sorriso stanco, mentre il rumore delle bombe si fa più vicino.

Elisabetta Antichi. È nata a Pisa nel 1970 e vive a Cagliari con un marito e quattro gatti. Scrive per passione da sempre; ha partecipato a numerosi concorsi e ha pubblicato racconti e poesie su antologie e riviste.

Selezione di racconti da XI Concorso “Il Corto letterario e l’illustrazione”, NARRATIVA (Scrivere il corto) ALBERI DAL MONDO ( Sezione dedicata a Maniglio Botti)

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