Pasqua 1985

Pasqua 1985

La primavera del 1985 era esplosa all’improvviso dopo un inverno rigido e nevoso. Nel giardino di casa le camelie spargevano petali rossi ai loro piedi. La magnolia, alta oltre il balcone, apriva in anticipo i grandi fiori bianchi e il profumo intenso entrava dalle finestre della sala, lasciate socchiuse per far entrare il tepore del sole. Papà aveva dato il primo taglio della stagione al prato e si preparava a grigliare il pesce e le verdure. Mamma infornava le costine di agnello in attesa dell’arrivo di parenti e amici. Due lunghe tavolate apparecchiate vicino al portico, all’aperto: la giornata si annunciava calda e luminosa e c’era aria di festa. Nel frigorifero vino, spumante e una torta di pan di spagna ricoperta di crema pasticcera e fragole. Era la domenica di Pasqua. E io compivo diciotto anni.
“Diventare maggiorenni in un giorno così vale il doppio”, disse mia sorella Ingrid. Il giorno prima, complice la Lory, la mia amica di sempre, ero andata a farmi i buchi alle orecchie e ancora mi dolevano un po’. Io ho sempre avuto paura degli aghi e l’idea non mi era mai piaciuta. Era tempo di fare anche questo. Convinta che le avrei sentite dai miei, rimasi a bocca aperta quando nell’uovo di cioccolata trovai un paio di orecchini d’oro: un piccolo zaffiro circondato da cinque brillantini. E penso che la Lory sapesse già tutto.
Quella settimana avevo fatto anche scempio dei miei lunghi capelli: li avevo accorciati fin sopra le spalle con la permanente. Un gesto importante per me che mi conformavo con facilità alle richieste dei miei genitori. Un taglio con la bambina che non mi sentivo più. Quello sì fu uno shock, specie per mia madre. C’è chi dice che i diciotto si aspettano per cambiare, ma poi sono un anno come un altro. Per me non è stato così.
I miei cugini durante il pranzo parlavano del Luna Park, tappa obbligata del pomeriggio. Carlo, il maggiore tra noi, era silenzioso. Si era lasciato da poco con la ragazza e non aveva voglia di scherzare. Lo capivo, perché anch’io nascondevo una piccola delusione.
Il pranzo andò come al solito per le lunghe. Noi ragazzi decidemmo di abbandonare la tavolata e di investire le mance pasquali di nonni e zii alle giostre, richiamati dalla musica trasportata dall’aria. Casa mia non era molto distante e ci avviammo a piedi.
Comprammo manciate di gettoni per gli autoscontri: il posto migliore per fare nuovi incontri. Carlo seppellì il suo dispiacere nel sorriso di una biondina. Non so più quanti giri facemmo. Però ricordo bene quello che provavo. Davanti allo specchio avevo osato per la prima volta un filo di matita sugli occhi e il mascara sulle ciglia; poi i capelli ricci, gli orecchini veri, il completo giallo che tanto avevo desiderato: mi sentivo diversa. Avevo diciotto anni. Ero diventata grande in una notte.

Racconto di Anna Rosa Confalonieri

Il racconto del giorno feriale (dagli autori della nostra scuola di scrittura SCRIVERE IL CORTO)


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