Il divano avvolgente e la cioccolata calda rendono la domenica di pioggia e studio più sopportabile. Mio nonno si siede accanto a me: La Costituzione della Repubblica Italiana, che letture impegnative, in questa allegra giornata.
Mi prende in giro, sa che preparo l’esame di diritto costituzionale.
Guarda il punto in cui sono arrivata, e legge: art. 12, La bandiera della Repubblica è il tricolore italiano: verde, bianco e rosso, a tre bande verticali di eguali dimensioni, questi sono i colori sotto i quali ci riconosciamo.
Sai Laura, sono stato in Tripolitania, mangiavamo bucce di patate, notti all’addiaccio, dormivamo nell’acqua e al mattino sull’attenti per salutare il tricolore. Eravamo ragazzi, fieri della nostra patria, della bandiera, di quella divisa, e pronti a morire per difenderla. Eravamo soldati.
Un fiume di ricordi trasforma un pomeriggio di studio su carta in studio su vita, e non è nostalgia: mi trasmette fierezza, orgoglio di essere italiana. In casa mia c’è il tricolore, non in altre case, e questo mi rattrista. Quest’anno sono stata a New York e la Stars and Strips (stelle e strisce), la bandiera americana, sventola in ogni dove. Perché da noi no?
Laura per avere la luce, la speranza, dovete ricominciare a combattere per i nostri colori con passione, purezza di spirito. E sarà dura, il nemico è la dimenticanza, l’ignoranza, non conoscenza di ciò che è stato. Non scordiamo cosa significa “fonderci insieme”. Lo cantiamo con la seconda strofa dell’inno di Mameli. La rammenti vero? Te l’ho insegnata quando avevi cinque anni, forse eri troppo piccola.Poi l’hai, l’avete cantata a scuola, solo una parte, però l’avete fatto, in quinta elementare avevate il grembiulino blu e il nastro tricolore. È questa la strada giusta da percorrere per raccoglierci sotto un’unica bandiera, a voi ragazzi il compito di trasformare in certezza la speranza di tornare a essere un popolo.
I colori sono diversi, distinti, ma legati insieme: il verde, il bianco e il rosso. Al mattino alziamoci e salutiamo la bandiera, il nostro tricolore.
Nonno, non è facile combattere contro l’ignoranza, nel senso di non conoscere, come si può fare?
Non arrenderti, canta l’inno in piedi, metti la mano sul cuore e vedrai che altri ti seguiranno.
Vedrai che riuscirai.
Grazie nonno, finché ci saranno persone come te e ci aiuteranno,tutto sarà più semplice. Mi alzo e l’abbraccio. Ritorno al mio libro di costituzionale, nelle orecchie l’inno nazionale e quella seconda strofa che nessuno ricorda.
Sono passati molti anni da allora, e il tricolore a casa mia continua a sventolare. Tutte le mattine il pensiero va a mio nonno, che non c’è più, e al suo insegnamento. Porto la mano al cuore.

Racconto di Laura De Filippo

Il racconto del giorno feriale (dagli autori della nostra scuola di scrittura SCRIVERE IL CORTO)


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Giacca di pelle con la decalcomania di un teschio infuocato sulla schiena, stivali da pioggia, e il cappello degli Yankees messo a rovescio, tutto largo e tutto rigorosamente pesato. Franco, il ragazzino problematico degli Stagi, così dicevano i vicini, inforcò la bici Saltafoss, sellino lungo, ammortizzatori anteriori e posteriori e si diresse verso la montagnola di terra formatasi durante i lavori di costruzione del quartiere Gavi: sei palazzine di otto piani senza ascensore. Per gli altri bambini era Pesolordo, un modo per prenderlo in giro due volte, per la sua corporatura, sessanta chili concentrati in un metro e quaranta di altezza, e per l’ossessione per la matematica. Fosse nato un paio di lustri più tardi gli avrebbero diagnosticato l’autismo, ma nel 1978 chi manifestava quel tipo di problemi era, per sempre, un minorato mentale. Aveva calcolato distanze, pendenze e la variabile gravità, per questo aveva preso in prestito i vestiti di suo zio Gianni, un ventottenne scapestrato, e li aveva pesati sulla bilancia in cucina e in quella del bagno. In una gara in discesa la massa era essenziale. Per toccare la velocità prestabilita doveva raggiungere gli 81 chili, non uno di meno non uno di più. Per questo alla fine collocò sopra il manubrio un mangianastri con inserita una cassetta dei Pooh, il suo gruppo preferito. La salita fu faticosa, scese dalla bici diverse volte per spingerla a piedi, qualcuno dal basso rideva di lui, Franco non se ne curò, aveva un unico obbiettivo in testa. Giunto in cima si asciugò il sudore con il panno che teneva sotto il sellino. Rifece a mente i calcoli e i computi, le formule gli balenavano davanti agli occhi chiare come farfalle in una sera d’estate. Iniziò la discesa. Percorse il pendio per una ventina di metri con una pendenza di 14 gradi, poi una leggera curva a sinistra con un inclinazione minore e di nuovo a destra per gli ultimi 37 metri, ogni tratto era stato misurato con il righello di scuola. Doveva ricordarsi di chinare di più la Saltafoss nella svolta a destra e percorrerla un po’ più stretta del normale così da arrivare alla meta a una velocità di 45 chilometri orari. Tra scossoni e vibrazioni metalliche stava comunque procedendo bene, finché il berretto non calò sugli occhi oscurandoli per una frazione di secondo, tempo sufficiente a cambiare traiettoria. Con la musica a tutto volume e pochi e distratti spettatori, andò a sbattere contro il masso che, se non avesse avuto inconvenienti, sarebbe rimasto pacifico un paio di metri alla sua sinistra. E con un effetto catapulta, annotò mentalmente Franco, volò in alto nel cielo. I presenti diranno poi di avere sentito un urlo di terrore. Ma in quei pochi secondi Pesolordo calcolò la velocità di caduta: 68 chilometri all’ora. Il suo, in realtà, fu un grido di giubilo.

Racconto di Gian Paolo Zoni, illustrazione di Daniela Landini (instagram: dani_illustra)

Il racconto del giorno feriale (dagli autori della nostra scuola di scrittura SCRIVERE IL CORTO)


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La chiave entrò nella serratura, clack!
Cosa trovò il guardiano aprendo la cella, Marie non poteva vederlo, poiché lontana miglia: il suo Michè penzolava appeso a un lenzuolo. Così, dai suoi occhi, cadde, a goccia, la stessa stoffa.
“Cosa ti succede mia cara? Come mai piangi?” chiese la madre. Marie sapeva di amarlo, sapeva quanto poco spazio lui avesse per vivere, eppure rispose “non so”.
Il pianto smise quando una ragazza cerbiatto venne a dare la notizia: “Miché finirà in una fossa comune, senza cerimonia, senza benedizione, con solo una risposta a quel perché”. “Vorrei accarezzarlo un’ultima volta, vi prego” chiese Marie fresca d’un vuoto affamato e calda d’una lunga corsa improvvisa. Il guardiano negò. Aprì alla verità solo quando Marie mostrò una sacca da cui scaturì quel sole tascabile che piace ai ladri: “Portato via. Venduto a un vecchio tirafili che ogni inverno passa in città. Ora vattene donna”. E sbatté il portone sulla di lei disperazione.
A seguire tintinnarono le monete del sorvegliante sulle tavole, sempre di meno, come le foglie del calendario, sempre di meno.
Se l’anno è una ruota, fece un giro completo.
“Perché ci sono solo bambini in questo teatrino ambulante?” chiese Marie.
“Perché i bambini vogliono giocare con tutti, anche con la Morte, gli adulti invece no” rispose insinuante la signora del botteghino. E con l’arto intagliato nel mogano scostò la stoffa d’ingresso: “Prego, accomodatevi”.
Il teatrino delle ossa danzanti era tornato in città.
Scheletri manovrati dall’alto saltavano sul palco per la gioia incredula degli spettatori minorenni. La bigliettaia suonava un organo fatto dello stesso materiale dei ballerini. A fine spettacolo Marie, mossa da un macabro presentimento, corse dietro le quinte. “Dov’è il mio Miché?” e picchiò le mani da lavandaia sul petto del vigoroso marionettista. Lui le bloccò: “L’aspettavo. Ora tocca a lei scegliere, sa cosa troverà”. E la condusse davanti ad una porta.
Lei aprì il cuore vedendo quello scheletro accasciato a terra, con una corona d’oro in testa e un lenzuolo bianco come mantello.
“Che ne avete fatto della sua carne?”.
“I corvi ringraziano signora, è stato un duro inverno anche per loro”.
“Cos’è successo alla sua anima?”.
“Non so signora, io sono solo un semplice marionettista”.
Lo stallo della sposa fece capire all’artista il dovere da compiere.
Fece qualche passo, salì sul ponte di manovra, prese il ferretto centrale, i fili.
E Miché iniziò a muoversi. Marie si avvicinò quieta, gli occhi sbarrati.
Miché le fece una dolce carezza. E dalle orbite di Marie sgorgarono gocce d’osso.

Ispirato alla canzone “La ballata del Michè” di Fabrizio de Andrè e al fantasmagorico scheletro che Radis “The Gipsy Marionettist” Nikolic fa ballare durante i suoi spettacoli.

Tratto da “22 arcani circensi, freaks e simili” edizioni Il Cavedio

Racconto di Paolo Negri illustrazione di Eugenio Broggi

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“Una bella giornata, Agnese. Da tempo non ci concedevamo una gita in barca. Qui a Villagrazia ho respirato aria buona con te e i nostri figli. La settimana prossima ci torniamo con qualche amico, un pranzo in compagnia. Ti va?” Seduto sul dondolo in terrazza, la testa di lei appoggiata sulla sua spalla, gli occhi socchiusi, respira l’odore del sale tra i capelli ancora umidi dell’ultimo bagno, le sfiora il collo con un bacio e si alza con indolenza domenicale. Ci provano Paolo e Agnese Borsellino a trascorrere una vita normale. “Ora vi riporto a casa e passo a salutare mamma e Rita. È qualche domenica che non ci vado, mi aspettano. Un abbraccio, un caffè e sarò di nuovo da voi”. La moglie lo incalza, la scorta non è adeguata. Lui alza le spalle, non risponde, le sorride. Lo sa. Preferisce non stringere troppo la protezione intorno a sé: il bersaglio può diventare qualcuno della sua famiglia. Scrolla la testa per scacciare il pensiero. Sale in auto il morto che cammina, dead man walking, dice alla scorta. Sottovoce, che Agnese non senta. Sono passati 57 giorni. Li conta: giorni di morte per Giovanni, giorni di vita per lui. Regalati. La mafia non lascia scampo alle vittime designate. È un sopravvissuto. È in pericolo, ma crede nel suo lavoro. La paura non lo condiziona. Si mette alla guida. Non vuole nessuno. Gli agenti lo seguono. Niente sirene spiegate, una passeggiata in silenzio fino a via D’Amelio. L’auto arriva davanti al portone. Uno sguardo veloce con l’occhio abituato a cercare i particolari. Si lamenta a denti stretti. Troppe auto intorno alla casa di sua madre. Aveva chiesto alla Questura di rimuoverle. Erano ancora lì. “Non sarà la mafia a uccidermi, ma i miei colleghi a permettere che ciò accada”. Chiude con cura nella valigetta l’agenda rossa, il prezioso diario con i dati di indagini e riflessioni e scende dall’auto. Deve fare in fretta. Al fianco i giovani Emanuela e Agostino, orgogliosi dell’incarico. Vincenzo, Eddi e Claudio li precedono nel portone. H.16.58: suona il citofono. La Fiat 126 verde, che non doveva essere lì come nessun’altra auto, esplode. Una bomba radiocomandata a distanza. Più di 90kg di tritolo. È l’inferno. Auto distrutte dalle fiamme, gente che urla, corpi dilaniati. Un solo sopravvissuto, l’agente Antonino Vullo. Una tragedia greca, in cui fin dall’inizio incombe l’atmosfera di morte, ma qui manca la catarsi.
19 luglio 1992
È normale che ci sia la paura, ma combattetela con coraggio (Paolo Borsellino)

di Annarosa Confalonieri

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Guarda me. Gli occhi mi sfiorano, viola, con una luce intensa, misteriosa. Il colore dei fiori di lavanda. La sconosciuta è così vicina da sentirne il profumo. Ricorda i prati e le corse nel vento. Posso vedere il gesto nervoso con cui si aggiusta i capelli. Biondi. Però è lontana, perché non posso andare accanto a lei. A ogni mio tentativo si confonde di nuovo tra la folla. Una macchia bionda e viola tra questa gente chiassosa. La folla dell’Ippodromo, la sera.
Non ho mai visto tanti spettatori come per questa corsa e non ho mai visto una donna così bella. Deve avere mani morbide e tiepide, per accarezzarti. Invece stringono il programma delle corse.
Si allontana distratta, con l’attenzione ormai catalizzata altrove. Eppure mi ha visto, ho sentito uno sguardo viola bruciarmi sul collo anche mentre non ero più rivolto a lei. Forse mi ha scelto.
È sola, nessun maschio in giacca di lino e portafoglio rigonfio al fianco.
Va verso il picchetto, a puntare sulla prossima corsa. Non riesco proprio a seguirla. Ho già nostalgia di quello sguardo e delle carezze che non mi ha dato. Ma potrebbe. “Fantini in sella”. Chiamano i cavalli per la quarta corsa. La corsa a vendere. “Cavalli in pista”. Gli altoparlanti sono fastidiosi, stasera. Vorrei avere nelle orecchie solo il rumore di ruscelli che scorrono, nei prati viola di fiori. È salita in tribuna, ha un piccolo binocolo. Forse lo punterà su di me. “I cavalli sono all’ordine dello starter”. Inizia la corsa. “Partiti”. Zoccoli, frustini, zolle d’erba, le urla dei giocatori. Partiamo: le mie zampe, più leggere che mai. E veloci. Corrono come sui prati. Dove sono gli altri? Sento, dietro di me, rumore di fango calpestato, lontano. Non i respiri umidi dei cavalli, solo le redini leggere sul collo e le piccole cosce del mio amico in giubba colorata. Qualche voce dalla tribuna.
Ho vinto, esultano i pochi che avevano puntato su di me. Le mani del fantino mi sfiorano il collo: cuoio bagnato di sudore. O sono io che sono fradicio e il suo calore si confonde con l’eccitazione che il piccolo trotto degli zoccoli non calma, e neppure l’aria profumata che mi fischia nelle narici.
Ho vinto e il fieno croccante sarà doppio. Forse lei ha vinto con me, ed è una corsa a vendere. Eccola. Sventola felice il programma e mi fissa con i suoi occhi viola. Esco dalla pista accanto a lei. Avevo ragione: ha mani morbide.
Ci avviamo insieme al tondino. Sfilerò con gli altri mentre inizierà l’asta. E lei sarà la mia compratrice e io il suo nuovo amore.

di Angela Borghi

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I caccia si rincorrono e si sfuggono tra virate e cabrate. Mitraglia puntata, giro della morte e via. Alle spalle una scia di fumo. Abbattuto! Non sempre il nemico muore. Forati a più riprese i serbatoi, il nostro Cavallino rampante costringe un pilota rivale a scendere. Anche il vincitore atterra e gli si pone accanto. È un segno di rispetto. Si sincera che sia illeso e gli stringe la mano. Coglie l’espressione avvilita e gli fa coraggio. È un giovane austriaco che porta sull’uniforme azzurra la Croce di Guerra e la Medaglia al Valore.
“Me le sono guadagnate in Russia”, dice con orgoglio in un italiano dal forte accento tedesco. “Qui non sono riuscito a sfuggire alla sua caccia. Complimenti HerBaraka”. La voce rotta dalla stanchezza e dall’umiliazione.
“Sei fortunato, per te la guerra è finita. Tornerai a casa dalla tua famiglia”, lo conforta l’Asso italiano. “Meglio morto”, risponde l’altro, “con onore, in battaglia, abbattuto da lei, non salvato”. Impugna la pistola. Francesco deglutisce. Nell’aria la paura lascia il posto alla baldanza. Ma qui, con i piedi a terra, la morte sembra più vicina. Non è preparato. L’austriaco capisce.
“Un difensore della Patria non deve avere paura” gli dice. Lo guarda negli occhi e in un attimo una scia di sangue e cervello sporca il cavallino nero. Il corpo cade scomposto, gli occhi sbarrati. Baracca è stordito. Stringe i pugni. Poi sfila il guanto dalla mano destra e abbassa le palpebre dell’aviatore.
Rulla di nuovo il motore, dà gas, l’apparecchio prende velocità. Passione, genio, follia, come aveva detto suo padre. “Un difensore della Patria, non deve avere paura”, ripete. Non gli importa più nulla. Accada quel che deve accadere. A volo radente scende con il suo Spad S.VII in appoggio ai nostri fanti, esposto al tiro dei soldati nemici.

Francesco Baracca 9 maggio 1888 / 19 giugno 1918

Racconto di Anna Rosa Confalonieri, illustrazione di Alda M.C. Torri

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Era l’anno della maturità classica, e anche quello dei mondiali di calcio, e fu pure l’anno in cui nella nostra palazzina era venuta ad abitare, al quarto piano, una coppia di sposini, lui era un tipo burbero, non parlava mai e si interessava solo di calcio, lei… lei non posso descriverla, aveva una trentina d’anni ed era speciale, non era come le mie compagne di classe o come la mia ragazza che mi dava i bacini della buona notte sotto il portone, lei era una donna, e quando a me toccava il turno delle pulizie e lavavo le scale al piano terreno, e stavo chino con gli stracci in mano, lei scendeva e mi scavalcava senza chiedere permesso e con la gamba si strofinava sulla mia schiena, e i miei amici dicevano che era una troia, a me però faceva certi sorrisi che toglievano la parola, e infatti restavo muto, ero un ebete, e un giorno che il pianerottolo era ingombro dei miei secchi di acqua, lei per passare mi afferrò in mezzo ai pantaloni e mi spostò da una parte, e io da quel momento non pensai che a una cosa sola… E quella sera che c’era la partita ITALIA-GERMANIA tutta la palazzina venne a casa mia per fare il tifo insieme, e c’era anche quel citrullo del marito, e dopo il primo tempo io andai in cucina a bere un’aranciata e dal balcone guardai in su e la vidi affacciata alla finestra che ammirava il cielo, e così ebbi in quell’istante la più grande intuizione che finora avevo avuto, e quando salii le scale le gambe mi tremavano… E come poi è finita quella partita lo sappiamo tutti, e ci riversammo nelle vie e nelle piazze della nostra cittadina, e se qualcuno ricorda bene c’era uno che era più matto di tutti e stava in piedi sul tetto delle auto con il rischio di rompersi il collo, e poi, lo stesso, fu il primo a tuffarsi nella vasca della fontana in piazza, seguito da tutti gli altri, e sempre lui intonava I-TA-LIA I-TA-LIA, e quando seppe il nome del giocatore che aveva segnato il gol del 4 a 3 nessuno poté trattenere la sua gioia, e a squarciagola propose il nuovo coro… RI-VE-RA RI-VE-RA.

di Yuri Sansilvestro, illustrazione di Renato Pegoraro

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Lui si chiamava Sansone, lei Dalila, e con la storia di Dalila che taglia i capelli a Sansone non c’entrano niente, e nemmeno con questa, perché lui era il mio cane e lei la gatta di una vicina di casa… e abitavamo in una vecchia corte dove le notizie del mondo non arrivavano mai, e a chi ci viveva quella corte sembrava il mondo intero, e la vita lì era davvero intensa, ognuno seguiva un sogno e si dava da fare per realizzarlo, e quando ci si incontrava sulle scale o nel cortile era un piacere parlare delle previsioni del tempo, e intanto nella testa ognuno rincorreva il proprio pensiero, e il mio sogno era di andare via da quella piccola corte e entrare nel mondo vero… e un giorno comprai un cane e lo chiamai Sansone, e la mia dirimpettaia, proprio la stessa sera, tornò con una gattina e giù in cortile la sentivo dire a tutti guardate la mia Dalila, ma Sansone & Dalila non c’entrano con questa storia, e allora, per iniziarla, vi dirò che un giorno passavo in una via della nostra cittadina e rimasi incantato a guardare una vetrina di parrucchiere, era particolare, piena di piante e di fotografie di attrici che spuntavano da dietro le foglie, Marilyn Monroe, Ingrid Bergman, e Brigitte Bardot con una pettinatura di moda che lei stessa aveva lanciato… non avevo mai visto una vetrina tanto originale, sgranavo gli occhi, e sulla porta del negozio si affacciò la mia vicina, e io non sapevo nemmeno che lei era una parrucchiera, e mi prese per mano e mi portò dentro, mi accomodai in una di quelle meravigliose poltrone, e lei mi disse adesso le faccio un bel taglio alla James Dean e poi, guardandomi con un rimprovero negli occhi, aggiunse… o forse lei preferisce tenere i capelli scapigliati? E io non sapevo che rispondere perché lì era tutto ben curato, e l’unica cosa che mi venne da dire fu… ma questo è un negozio di parrucchiere per donna? Lo sapevo che lei è una persona all’antica, rispose la mia vicina, e poi con una pompetta mi sparse la testa di profumo, e io capii di essere caduto nell’incantesimo di una magia, come James Stewart nel film Una strega in paradiso con Kim Novak, e se volete avere la conferma di ciò che forse avete già intuito, vi dirò che è proprio così, quella nostra bella corte la mia vicina e io l’abbiamo lasciata insieme, e insieme siamo andati a seguire i nostri sogni nel mondo, e adesso avete anche compreso perché Sansone & Dalila non c’entrano in questa storia, salvo per il fatto di chiamarsi, non a caso, Sansone & Dalila, e se qualcuno ce li vuole fare entrare a tutti i costi possiamo immaginare la scena finale… La mia ragazza e io ci allontaniamo tenendoci per mano, la cinepresa è fissa e inquadra la strada, le nostre figure si fanno piccole mentre vanno verso la parte alta dello schermo, e in basso, a questo punto, entrano un cane e un gatto che guardano verso l’obiettivo. E sullo schermo appare la parola FINE.

di Abramo Vane. Illustrazione di Stefano Varotto

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Il primo sguardo che il Maestro ebbe per me fu di traverso. Era intento a piegare una tovaglietta per deporla in un cassetto che stava lì davanti e mi volgeva parzialmente le spalle. Entrai, e mi guardò in quel modo, di traverso. Poi si voltò verso l’ingresso e mi salutò con un inchino. Quell’uomo era famoso, il suo pensiero, i suoi insegnamenti erano conosciuti ovunque, ma viveva isolato, estraneo ai clamori della celebrità. Con un gesto della mano aveva tracciato un’idea del vivere e aveva parlato al mondo con la saggezza di rituali antichi. Pochi l’avevano però incontrato, e al fine forse pochi l’avevano davvero compreso. Lui del mondo non ne aveva bisogno, e quando entrai in quella stanza io non ero altro che il mondo.
Divenni la sua allieva prediletta, e mi chiedevo com’era stato possibile. Lo incontravo ogni lunedì pomeriggio e insieme gustavamo meravigliose tazze di infusi preziosi. Fui silenziosa, attenta. Memorizzai i particolari delle varie liturgie di quelle cerimonie così disadorne e così profonde, un mistero che mi pareva il mistero della vita stessa. Ne sperimentai i sapori, e un giorno, dopo anni di frequentazione, capii che il Maestro di me sapeva già tutto fin dall’inizio, da quello sguardo di traverso. Ero, a quei tempi, una donna che cercava la verità, e fra le tante strade possibili avevo scelto quella della bellezza.
Tutto era sobrio e raffinato. Il Maestro sereno, la conversazione fluiva libera, composta da poche e essenziali parole. E l’armonia non veniva mai alterata.
In me cresceva una convinzione, e sul mio diario scrissi che l’arte esprime l’energia e il vigore spirituale dell’umano esistere. Ne ero certa, e volevo essere artista. Ero andata fino là per questo, per imparare, e quel giorno ebbi l’intuizione che era lui in persona, il Maestro del tè, ciò che io cercavo. Lui era l’arte, e tutto stava in una tazza di tè.

di Anna Bentivoglio

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Il fiume scorre lento frusciando sotto i ponti, la luna splende in cielo, dorme tutta la città. Solo va un uomo in frac

Notte di luna, notte tranquilla. Le strade sono vuote, la città dorme, finalmente.
I due poliziotti fumano in silenzio sul ponte, l’auto posteggiata poco lontano. Ancora qualche ora alla fine del turno. Dal buio emerge un uomo, lo sparato candido della camicia luccica nell’oscurità, i capelli gli accarezzano le spalle. Sotto al lampione ha lineamenti eleganti, mani dai movimenti armoniosi. Indossa un frac.
I due agenti si guardano, incerti se chiedergli i documenti.
– Mi fate accendere? – li anticipa lui – mi fermo sul ponte ad ascoltare il fiume, ad aspettare il mio amore. Attendo da tanti anni e questa notte verrà.
– È molto tardi, signore, per stare in giro. Qual è il suo nome? – Gli chiede il più deciso dei due.
-Ah, eccola! – risponde invece lui senza ascoltarli più.
Appare una donna accanto all’uomo in frac. E’ in lungo, l’abito nero le valorizza i capelli rossi e gli occhi chiari. In mano ha un violino.
Si baciano a lungo e poi si allontanano a passi silenziosi, scomparendo nel buio, prima che i due poliziotti aggiungano una parola, abbagliati dall’aura di bellezza e felicità della giovane coppia.
Dalla portiera aperta dell’auto di servizio giunge una voce metallica: codice sette, incidente stradale sul lungofiume, pattuglia dieci-quattro recarsi sul posto immediatamente.
Partono sgommando e si dimenticano dello strano incontro. L’incidente è grave, in quello che resta dell’abitacolo dell’auto giace l’anziana guidatrice, morta, ricoperta di frammenti minuscoli di vetro che brillano come stelle.
La sera dopo i due poliziotti sono ancora in servizio insieme. Si fermano a bere un caffè in un bar della periferia. Il più giovane trova un giornale aperto su un tavolino e gira qualche pagina, poi mostra al collega le scritte sotto una fotografia: morta in un incidente d’auto sul lungofiume Erica Sofia Gherardi vedova Lanza di Trabia. L’anziana signora era molto nota per essere stata, da giovanissima, il primo violino dell’orchestra dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia. Un’artista di talento con un grande avvenire. Alla tragica e prematura scomparsa del marito, il maestro Raimondo Lanza di Trabia, aveva fatto scalpore la decisione della musicista di abbandonare l’orchestra e di non suonare mai più il violino.
I due poliziotti si guardano confusi, non sanno che cosa dire. Dalla pagina due occhi chiari già visti li fissano con un sorriso complice.
(Ispirato a Vecchio frac, Domenico Modugno, 1959)

di Angela Borghi, Illustrazione di Marzia Nigro

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