È arrivata la primavera

Dovevamo festeggiare la nuova stagione, e nella nostra Vetrina da leggere tutti i racconti omaggiavano magnolie e fiori di pesco, e qualche autore non s’era trattenuto dall’associare il risveglio della natura a quello dell’anima, bah… cose del genere capitano nelle migliori famiglie. Occorreva comunque tirar su i soldi, i politici non ci sentivano, e non so se avete mai notato le loro orecchie, uno fa l’assessore, e un altro è consigliere, e un altro è tanto avanti e quotato nel partito che vuol diventare parlamentare, e glielo auguriamo di cuore, se questo è il suo desiderio speriamo per lui, purché non lo faccia per noi… e le loro orecchie sono grandi, fa parte dei requisiti, grossi padiglioni per ascoltare i cittadini, ma se guardate dentro il timpano non c’è, non sentono e tengono viva la frase convenzionale per cui quello che entra da una parte dall’altra esce, è un tunnel unico, da orecchio a orecchio, le parole scorrono via gocce su marmo… e non c’è problema, tutti abbiamo dei limiti, ma loro non lo ammettono e quando gli fai una domanda rispondono sì, dicono sempre sì, non gli costa niente, e infatti non hanno nemmeno sentito… e poi un’altra categoria che ci poteva aiutare era quella dei commercianti, ma chiedere moneta a un commerciante il minimo che può capitare è che risponda… e io che ci guadagno? E dobbiamo volergli bene, e come si fa a non amarli, hanno bisogno più di altri, e diamogli una mano… non conoscono la bellezza dell’azione gratuita.… però nella cittadina dove il tempo si è fermato i commercianti non sono così, sono speciali e ti offrono le loro vetrine, e noi per la festa di primavera le abbiamo riempite di magnolie e fiori di pesco, e poi adesso si è aggiunto Martin Stigol, lui fa animazione nelle strade, non è di queste parti, però ha capito che il suo compito è qui, e non è un missionario, è solo uno che si commuove per il sorriso di un bambino, e questi due elementi messi insieme sono il motivo per cui anche quest’anno nelle vie del centro arriverà la primavera. Martin si prepara, e bruceremo il vecchio, la natura rifiorirà, e tutti lo sanno, politici e commercianti, tutti sanno che una festa insieme vale più dei soldi. C’est la vie.

Racconto di Abramo Vane, in occasione del venticinquesimo della Vetrina da Leggere di via Cavallotti.

Il mandala 

Se fossero tutti come Barbara & Michele, la nostra Vetrina da leggere già volerebbe, purtroppo nella cittadina dove il tempo si è fermato c’è gente piena di grana che a tirar fuori cento euro sta male, sta proprio male fisicamente, e allora che ci puoi fare, dici forza e coraggio e applichi la politica dei piccoli passi, e se tutto dovesse andare a ramengo, ed è più probabile questo che non la realizzazione del sogno, resterebbero l’essenza dell’azione e il fascino di averci provato… ma non divaghiamo, sapete che hanno fatto l’altro giorno i due soprannominati? Hanno chiamato nel loro negozio di mobili orientali alcuni monaci tibetani a realizzare un mandala. Io sono arrivato alla sera e mi dispiace di non aver seguito tutto l’avvenimento anche se non è stato difficile ricostruirlo. Dalla mattina i monaci seduti attorno a una tela avevano aspirato per tutto il giorno granelli di sabbia con un piccolo cono da alcuni mucchietti che servivano per riempire e costruire il mandala, ce n’erano di rossi, gialli, verdi, neri, tutti i colori, e questi granellini, risucchiati con pazienza infinita, uno alla volta, erano scivolati lungo la spirale attorcigliata del cono per andare a collocarsi, secondo il colore, nello spazio prestabilito, e alla sera il mandala era terminato, una serie di cerchi e figure geometriche formavano un mosaico, e tutti dicevano che bello che bello, e così si giunse alla benedizione dell’opera, e parole cantilenate, incomprensibili per noi che però ne percepivamo la profondità, accompagnarono una cerimonia semplice, e alla fine la sabbia che componeva l’opera d’arte fu raccolta al centro del mandala, e in pochi secondi svanì quella figura che era costata il lavoro di una giornata, i monaci ridevano soddisfatti, e ne prese forma un’altra, come se da una pittura figurativa si fosse passati a una astratta, e io mi ricordai a proposito la lezione del pittore Gianluigi Sommaruga, passato dal figurativo all’astratto, e però nemmeno quel disegno rimase e i granelli di sabbia furono distribuiti in bicchierini fra i presenti, e mi sembra che a tutto questo non occorrano commenti. Noi cercavamo di imitare con i nostri sorrisi la serenità che traspariva dai visi di quei monaci, ma ahimè non ci riuscivamo, e Michele si avvicinò e sottovoce disse pazienza, ragazzi, avremo un’altra vita per riprovarci.

Racconto di Abramo Vane, in occasione del venticinquesimo della Vetrina da Leggere di via Cavallotti.

 

Cinema all’aperto

E sant’Antonio aveva fatto la grazia, Monica aveva acceso candele in tutto il negozio, e così quello non era più un negozio di abiti femminili ma un santuario per la Madonna, e i vestiti erano ancora più belli, Monica ci sapeva fare, nel suo lavoro era imbattibile, e quelle candele brillavano e annunciavano la serata che la nostra cittadina voleva vivere in modo speciale come se lì il tempo si sarebbe fermato… e il giornale radio aveva annunciato temporali serali, ma quelli delle previsioni guardavano il giorno sul calendario e non il nome che ci sta vicino, non si erano accorti che era Sant’Antonio e non sapevano che Monica aveva acceso candele in tutto il suo negozio di abiti… e così avevamo chiuso la via dove passavano le auto e tirato in mezzo uno schermo cinematografico, e proiettammo un film muto di Charlot, avevamo messo giù le sedie, e qualcuno se l’era portata da casa per non restare in piedi, un pianista seguiva il film e commentava dal vivo, e all’arte del cinema aggiungeva la sua, e la musica l’avevano fatta prima anche due ragazze che avevano suonato all’ora dell’aperitivo al bar del Cavedio, e ci fu anche il teatro, Martin e la sua troupe andavano in giro sui trampoli vestiti da Charlot, e siccome il film era un film muto non parlavano e si esprimevano con cartelli scritti come nelle comiche, e un passante che voleva dire una cosa capì che quello era l’unico sistema per comunicare e aveva scritto anche lui un cartello, e in attesa del film Samantha aveva preparato la paella e Fabrizio la sangria, ma Laura preferiva la birra e seduta al tavolino del bar la trangugiava senza bicchiere, direttamente dalla bottiglia, perché quello era l’unico modo diceva, e lei aveva un passato da dark anche se a guardarla non sembrava, e quando iniziò la proiezione il Giulio Rossini di Film Studio tirò due accidenti a quelli del Comune che non avevano spento il lampione in mezzo alla strada, ma nemmeno quell’inettitudine poteva ormai rovinare la magia, e vedere Martin e i suoi amici vestiti da clown, e poi il film di Charlot intitolato Il Circo, e sentire le ragazze con violino e chitarra e quel fenomenale pianista sotto lo schermo, e tutto questo in un’unica serata dove musica, cinema e teatro camminarono insieme come amici d’infanzia, fu indimenticabile, e per ricordare già bastava quella visione, la strada chiusa al traffico, e dietro alle persone sedute sulle sedie il tempo che si era fermato a guardare.

Racconto di Abramo Vane, in occasione del venticinquesimo della Vetrina da Leggere di via Cavallotti.

La Vetrina da Leggere

Me lo hanno chiesto in tanti, e adesso vi racconto la storia, vi racconto come nacque l’idea della Vetrina da leggere. Nella via c’era un negozio da affittare e allora chiesi al tizio dell’immobiliare se nel frattempo potevo mettere su quella vetrina vuota un foglio con un racconto, e così, quando mi diede il permesso, ne appesi due. Uno era L’uomo che scriveva nel vento, racconto in qualche modo emblematico. Lo avevo scritto per una nascente rivista letteraria mentre ero fermo al semaforo di via San Francesco, l’altro si intitolava Charles è morto, ed era di un ragazzotto di vent’anni. Non mi aspettavo niente. Dalla nostra città, che non sto a dirvi come si chiama, ma che per comodità da ora in poi chiamerò La cittadina dove il tempo si è fermato, non bisogna mai aspettarsi niente, salvo che vengano i vigili a vedere se sei in regola con l’attività oppure che uno ti denunci perché lo hai diffamato con un racconto di fantasia, come già mi è capitato. Era il primo anno che abitavo in quella via e me ne stavo pomeriggi interi seduto su una sedia del bar di fronte, e da lì vedevo la vetrina in questione e non mi pareva vero, ma c’era della gente attratta da quei due pezzi di carta messi su con lo scotch. Si fermavano e leggevano fino all’ultima riga. Incredibile, e chi abita La cittadina dove il tempo si è fermato sa perché dico incredibile. Se non parli di denaro qui è difficile comunicare. Qualcuno mi telefonò per acquistare i racconti e un paio di lettori, uomini, volevano conoscere Anna Bentivoglio, che era lo pseudonimo con il quale avevo firmato il mio racconto. E così chiesi a Ziorani di farmi la critica di tutti i film in città, e a quella cresta di gallo del Guglielmo di portarmi una tavola a fumetti, e poi a una ragazza del liceo di darmi una delle sue poesie, alla mia amica Rita qualcuna delle sue meravigliose fotografie, e fu quella la prima vetrina ufficiale. Era il 2 febbraio, in quel giorno era nato Jimmy Joyce, ma non l’avevo fatto apposta, la coincidenza mi venne in mente dopo. C’era già una redazione, e sembrava un giornale vero. Sei mesi dopo i commercianti della via accettarono di esporre nelle loro vetrine i nostri prodotti. Incredibile. Se l’avessi chiesto a uno del Corso mi avrebbe squarciato in due con lo sguardo. Qui era possibile, e il 21 ottobre inaugurammo il progetto sulla via. Vennero anche i politici e dissero molte parole, e se avessero realizzato una sola virgola di quello che promisero li avremmo votati fin tanto che campavano. Ma loro, appunto, erano politici, e noi volevamo solo ridere.  

Racconto di Abramo Vane, in occasione del venticinquesimo della Vetrina da Leggere.


Ottobre rosso

L’inaugurazione della Vetrina da Leggere qualcuno di noi ebbe l’idea di chiamarla Ottobre Rosso, e così ogni negozio della via esponeva un racconto illustrato, un’energia passava da un esercizio all’altro e le indecisioni venivano travolte dall’entusiasmo di quelli che ne erano affascinati. Tutti i contenuti erano di colore rosso, roba del tipo La mia vita di colore rosso, Semaforo rosso, Filastrocca rossa, Rosso per sempre, Rojo imposible amor… e i politici di destra per via di quel colore non ci salutarono, ma non è che con quelli di sinistra le cose andarono meglio, uno passò di lì con aria da saputello e capendo che la politica non c’entrava tirò fuori dalla tasca un bollino e l’appiccicò su una colonna dei portici, e da quel giorno fummo bollati, eravamo dei qualunquisti, non degni di giacere sotto la rossa bandiera, la cultura apparteneva a loro… e insomma non eravamo messi tanto bene e pensavamo che era stata un’idea del cavolo chiamare quella festa Ottobre Rosso, e se non fosse per quelli che collegarono il rosso alla vendemmia, non ce la saremmo cavata, e così fummo salvati da una massa di avvinazzati che accorsero con il bicchiere in mano, e noi giù a versare e a brindare a Ottobre Rosso, e musica e canti svelarono il nostro credo, che era quello di stare insieme attorno a quelle parole esposte, e commentarle, dire la nostra… e già a quei tempi io correvo dietro a un mondo che non è questo, non mi perdevo certo a combattere quelli che allora come adesso decidono per me. Quando penso all’illusione nella quale siamo immersi, il mio riferimento sono le preghiere delle suore di clausura che contano più del potere del presidente degli Stati Uniti… Beh, comunque, fu una grande giornata, mi costò una cifra, e fra tutte le persone impegnate nell’organizzazione io ero il più povero in canna, ma in realtà non ero così povero da non permettermi quello che mi concedevo, e alla sera la festa non si era ancora spenta del tutto che ero salito su di sopra, in sede, e lì trovai gli amici ad aspettarmi, e tutti avevano un episodio da riferire, e mentre giù in strada sentivamo le voci gioiose della gente, un ultimo brindisi fra di noi, alla salute di Ottobre Rosso.

Racconto di Abramo Vane, in occasione del venticinquesimo della Vetrina da Leggere.


Artisti in strada (Una rivoluzione silenziosa)

Ed era andata così, che la nostra bella stradina di giorno era un cimitero, non ci passava 

un cane come si dice, tranne quello al guinzaglio che faceva pipì davanti al negozio di Monica, e per dare un’anima a quei muri un pomeriggio invitammo i ragazzi del liceo artistico… e una ragazza faceva ritratti, altre tre la ceramica colorata, e c’era un ragazzo formidabile che truccava e creava effetti speciali sulla pelle e così dopo mezz’ora tutti i bambini erano in giro con ferite sulle braccia, guanciotte tagliate, occhi sanguinanti, e poi c’erano quelli che spruzzavano i murales, quelli del teatrino con le marionette, e uno suonava il flauto, e c’era anche un complessino jazz e un ragazzo ne dipingeva la musica su tela, altri due in un angolo in fondo battevano il tamburo, e una ragazza vestita da pagliaccio distribuiva palloncini e un’altra ruotava i colori della primavera come un giocoliere, un professore di fotografia con i suoi allievi immortalava gli avvenimenti, e una cosa davvero sorprendente è che tutti, ma proprio tutti, erano bravissimi, sembrava che avessero iniziato a sei anni a fare quelle cose, e la vita scorreva nella nostra stradina, qualcuno stava chiuso nel suo negozietto e altri serravano le finestre di casa, ma la vita scorreva, e un bimbetto si era fatto dare un pezzo di creta e si era appartato in concentrazione per creare subito anche lui quello che aveva visto dalle ragazze della ceramica, e i miei amici che avevano saputo della manifestazione mi dicevano che era una cosa fantastica, e la stradina era piena di artisti, tutti lo erano, e l’arte era un elisir sceso nel cuore della gente, e il poeta Silvio Raffo la percorreva e la inghirlandava con le sue battute, e il giornale lo avevano letto tutti, ma i signorini che in città pensano di essere loro la cultura non c’erano, e a una certa ora arrivarono quelli dell’aperitivo e avevano facce scure, e infatti quella sera l’auto non potevano metterla davanti al bar, e vicino a loro i ragazzi del jazz ci davano dentro, e si sorprendevano a vicenda che tutto riuscisse tanto bene, era una serata magica, immersi nella musica, e queste loro vibrazioni si percepivano lì attorno, e quelli dell’aperitivo rimanevano estranei, per loro non succedeva niente, e se passavano davanti alla ragazza dei ritratti non gettavano nemmeno un’occhiata, e non avevano una minima curiosità di come nasce un ritratto, di come lo spirito si muove in una matita, e tutto questo è davvero triste… e se qualcuno ha un’idea a proposito, che non sia quella di mettere a queste persone una dinamite nel sedere, per favore, per l’amore dell’umanità, la tiri fuori subito. 

Racconto di Abramo Vane, in occasione del venticinquesimo della Vetrina da Leggere.


In tre anni di conflitto Russia-Ucraina nessuno ha ricordato l’Esercito italiano che combatté in Ucraina nella Campagna di Russia 1941/43 della Seconda guerra mondiale.  

Quei bersaglieri e quegli alpini sul fronte russo, uomini costretti a diventare eroi per avere la speranza di tornare in patria, li ricordo con due racconti: IN PRIMA LINEA, una storia vera, documentata, e IL SOLDATO INUTILE, ispirata a fatti accaduti, con riflessioni sulla guerra. E sulla pace.

Ogni cosa è illuminata dal passato, e il compito della narrativa non è di sostituire la Storia, ma di renderla più comunicativa, in un totale rispetto degli accadimenti.

                                                                                       L’autore

IN PRIMA LINEA

Un bersagliere sul fronte russo

– Una storia vera –

Nessuno può spezzare l’anima, né il fuoco bruciarla; l’acqua non può bagnarla, né il vento seccarla.   (La Bhagavad-gita)

Prologo

I Morti e i Vivi

Questa storia la raccontano quelli che sono stati là, e poi sono tornati, sì, in qualche modo sono tornati, i superstiti della prima linea, ma la dovrebbero invece raccontare i morti, tutti quei morti che non hanno nemmeno una storia, e la storia vera, quella che i libri non riportano, la storia dei singoli, è rimasta in quei loro occhi spalancati… Noi li seppellivamo nella terra ghiacciata, quei morti, appena sotto, e altrimenti non era possibile, e a volte gli rompe­vamo le braccia rigide per farceli stare, e faceva così freddo che era come spaccare filoni di pane raffermo, qualche dito rimaneva fuori ed erano come fiori sulla tomba, gli unici a resistere, e tanti erano morti da eroi e la patria gli doveva almeno una medaglia alla memoria, ma là, davanti alla prima linea, non c’era mai un ufficiale a compilare il rapporto, e quando c’era anche lui era un morto… E così quella volta che avevamo cominciato un’azione di avanguardia e c’eravamo trovati quasi circon­dati, avevo imbracciato una mitragliatrice e il fuoco era violento, le pallottole venivano da ogni direzione e le sen­tivo proprio fischiare, indietreggiavo e sparavo anch’io scudi di pallottole e mi guardavo attorno e vedevo solo loro, i miei compagni morti, e loro vedevano me, e avevo tutti quegli scudi di pallottole a difendermi, e così ero ri­uscito a rientrare, e l’ufficiale mi aveva dato una medaglia, e me la consegnò lì sul campo, e il giorno dopo non me l’avrebbe più concessa perché anche lui era fra i morti. In prima linea ci sono rimasto tredici ininterrotti mesi, e quando l’ho lasciata di quelli che erano partiti con me, di quei ragazzi che avevano fatto il campo insieme, non ne era rimasto uno, tutti erano stati sostituiti, e così nel mio battaglione vedevo sempre facce nuove e poi mi ero ac­corto che di quel primo contingente di centottanta bersaglieri che componevano la prima compagnia non ne era rimasto nes­suno, erano morti o rimpatriati come feriti, e tanti non so neppure che fine avessero fatto, non erano più al fronte, e tutti erano stati sostituiti perché il soldato in prima linea viene sempre rimpiazzato, e dietro di lui ce ne sono altri sette che lo sostengono, che lavorano per lui, e quel sol­dato in prima linea non manca mai, cambia la faccia ma è sempre presente, e di quelle facce che avevano vent’anni ne avevo viste tante passare, la chiamavamo la giostra mortale, le facce colpite cadevano e ne ri­spuntavano altre… E come una freccia pungente e vele­nosa nella mente arrivava il pensiero che prima o poi qualcuno avrebbe preso il mio posto, e questo pensiero però io lo facevo correre via e tenevo la mente occupata con altro, e mi procuravo i fucili mitragliatori del nemico che funzio­navano meglio dei nostri, quelle straordinarie mitragliette che non si inceppavano mai, e cercavo il cibo sufficiente a un uomo che combatte ogni giorno, il tascapane a un morto non serve più a niente ma tiene in forza uno vivo, e quando ci sono quaranta sotto zero devi essere attrezzato, il congelamento parte dai piedi, e il nostro equipaggia­mento ai tedeschi faceva ridere, loro sì che erano preparati alla guerra e la volevano proprio fare, e se quel pensiero velenoso entrava nella mente di un soldato che non era pronto per la guerra allora nasceva la paura, e la paura in prima linea è una calamita, e tutte le pallottole sono lì, se uno ha paura è meglio che stia nelle retrovie, è meglio es­sere uno di quei sette soldati che stanno dietro, e se sei fortunato ti mangi i prosciutti e bevi acquavite per riscal­darti, ma in prima linea arrivano solo quei tozzi di pane fatti di paglia, e il vino è così annacquato che bisogna scioglierne i cubetti ghiacciati con i guanti e con il fiato, ma chi non è in prima linea fa un altro tipo di guerra, in prima linea non si trema per il freddo, non si trema per la paura, e chi lo fa è un uomo morto.

LE CORTO-LINE

Le Corto-line sono un nuovo modo per proporre la lettura. Si possono spedire, tenere come segnalibro o, meglio, collezionare. Brevi e intense, essenziali e innovative. In circa duemila battute si raccontano un episodio, una storia, una vita. Le Corto-line sono UN INVTO ALLA LETTURA, anche per coloro che non leggono, ai quali sono chiesti pochi minuti di attenzione. Scrittori e illustratori confezionano un prodotto nel quale la bellezza di un’immagine apre la strada alla lettura. 

da spedire e/o da collezionare

Le Corto-line, lette e interpretate da un’attrice o attore, fanno spettacolo.

Sono numerate e vengono proposte in gruppi tematici. Per ogni corto-lina 2/5000 copie. Distribuzione: iscritti ai Corsi del Cavedio (circa 3.000), biblioteche, negozi convenzionati, associazioni culturali, sponsor, eccetera. Anche in internet, con pubblicità ad hoc.  I racconti sono traducibili in inglese, tedesco, francese, spagnolo, arabo, russo, cinese, giapponese.

Qui un accenno ad alcune serie:

IL SIGNIFICATO DELLO SCRIVERE

– La pagina bianca

– L’uomo che scriveva nel vento 

– L’energia vitale 

– Scrivere il Corto 

RUGBY: METAFORA DI VITA

– Là dove nasce la vita

– Il guerriero

– Il pilone

– I giorni della bislunga

DONNE & RAGAZZE 

– La donna che sollevò il mondo 

– La donna cannone

– La ragazza uccello 

– La ragazza dai capelli verdi

UOMINI & RAGAZZI

– L’uomo che scriveva storie d’amore 

– L’uomo che si comprò il paradiso

– Il ragazzo con la cresta di gallo 

– Il ragazzo che uccise i Babbi Natale

ALBERI & SCRITTORI

– L. Ferdinand Celine

– Charles Bukovski

– Italo Svevo

– Piero Chiara

OMAGGIO A CANTANTI

– Fred Buscaglione

– Paolo Conte

– Giuni Russo

– Gerardina Trovato

ELOGIO DELLA FATICA (ciclismo)

– Infanzia di un campione (A. Binda)

– Il corridore che spaccava il tempo (J. Anquetil)

– La leggenda dell’imprevedibile scalatore (C. Gaul)

– L’ultimo atto (M. Pantani)

ALBERI CHE PARLANO

– L’albero di mio nonno

– L’albero che voleva essere albero 

– L’albero e l’angelo 

– L’albero baniano 

E tante altre insospettabili raccolte:

Le grandi battaglie – I nostri colori – Calciomania – Fotografi – Pittori – Passione golf – I colori della vita – Fiabe minime – Racconti d’amore – Vite da bar – Eventi culturali – Eventi mondiali – I gialli lampo – Noir – Omaggio a filosofi – La mia terra – Città d’Italia –

Racconto & Fumetto – La birra e il vino – La grappa … 

Le Corto-line fanno parte di un ampio repertorio, che dispone già di centinaia di racconti e illustrazioni. Per immediatezza e facilità di comunicazione, oggi sono più che mai attuali.  Abramo Vane ne è l’ideatore e capofila. Con lui una decina di autori della Scuola di scrittura IL CAVEDIO, e una PALESTRA DI NUOVI TALENTI tutta da scoprire.

  • LIBRI, classici e non

Il progetto INVITO ALLA LETTURA propone, in forma narrativa, LIBRI di storia, di attualità e di formazione destinati a giovani e meno giovani, adatti anche a letture e collaborazioni scolastiche

INOLTRE una traduzione moderna di classici di tutto il mondo, e libri di integrazione sociale per le scuole (es.: fiabe senegalesi raccolte da Senghor, fiabe popolari del Marocco, fiabe classiche d’Europa…).

DA NON DIMENTICARE la fumettistica, cara ai giovani.

  • UNA VIA TUTTA DA LEGGERE

Dall’esperienza di via Cavallotti in Varese, iniziata nel febbraio 2000 e durata dieci anni, il progetto INVITO ALLA LETTURA ipotizza la ripresa di una simile proposta, lungo una via di un centro cittadino, o comunque di passaggio pedonale. Ipotesi che potrebbe interessare e allargarsi su un parco letterario, con il coinvolgimento di scrittori e artisti.

Che cosa fu La Vetrina da leggere vent’anni fa

LA VETRINA DA LEGGEREfu paragonata a una rivista d’arte e di cultura da leggere in strada, nelle vetrine, mentre si passeggia o si fa shopping, fra un prodotto e l’altro, ed era costituita da alcune rubriche fisse e altre a rotazione.La cittadina dove il tempo si è fermatorubrica di narrativa a cura di Fiorenzo CrociA qualcuno piace caldo, rubrica di cinema a cura di Raniero Belloni riportante tutti i film in programmazione nelle sale di Varese con trama e giudizio critico,Tutto a un tratto fumetti e illustrazione a cura di Renato Pegoraro furono le rubriche proposte dalla prima redazione. A queste si aggiunsero:Bianconerorubrica di fotografia a cura del Foto Club Varese,Il Flauto magicorubrica di musica a cura dell’associazione  Musicosophia,Cavalli di razzarubrica di umorismo a cura di Carlo Cavalli,La moglie del principe azzurrorubrica di letteratura per l’infanzia a cura di Roberto Fassi,Pensieri in metarubrica di rugby a cura di Alessandro Borghetti e altre ancora fra cuiPiccola Breramostre di pittura, scultura e fotografia a cura di Laura Sangiorgi, perchéLA VETRINA DA LEGGEREnon fu solo una rivista da leggere in strada ma un punto di riferimento per chiunque, un modo nuovo per far conoscere iniziative di qualsiasi tipo e creare eventi, spettacolo, comunicazione.LA VETRINA DA LEGGERE fin dall’inizio mise in luce la capacità di coinvolgere gli interessi e le forze di altre realtà. Associazioni culturali e riferimenti importanti come quelli diMusicosophia, Zatterateatro, Girinarte, Albero Baniano, Fotoclub di Varese, Filmstudio ’90, Varesecorsi, Le Vie dei venti, il Museo Hermann Hesse, Openjazzvarese, La Piccola Fenice, Energia e Forma, La via interiore, A.s.d. Rugby Varese, Italia Nostra, Chiostro di Voltorre, Fabbrica Arte e Radio Marconi. 

 fmk1972@ilcavedio.it


Il 3 febbraio del 1959 è conosciuto come “The day the music died”, il giorno in cui la musica morì. Tre grandi interpreti del Rock’n’roll, Buddy Holly, Ritchie Valens e Big Bopper, persero la vita in un incidente aereo durante una tournée che li vedeva protagonisti. L’evento è ricordato dai fan di tutto il mondo, e nel web si trovano numerosi articoli. Nel sessantaseiesimo ho pensato di dedicare un tributo speciale con un racconto di fantasia. 


Lo zio che raccontava leggende

Quel giorno io non ero ancora nato, e quel giorno me lo raccontò lo zio Stefano, che se ne andava in giro con un cappello da cow-boy in testa, la giacca a frange tipo Buffalo Bill, il bolotai con l’unghia dell’orso che brillava fra i colletti della camicia, il cinturone con le ali di un’aquila sulla placca dorata. Vestiva proprio come un cow-boy. Gli mancava solo il cavallo. E scherzavo con lui, e quando avevo quindici anni gli dicevo Zio, ti manca solo il cavallo. 

Zio Stefano aveva una particolarità che poche persone al mondo hanno, non sapevo mai se nel parlare era serio o scherzava. Poi nel tempo capii una cosa, che se tutti gli uomini la praticassero il mondo sarebbe migliore, ed è quella di ridere di sé stessi, in ogni occasione, bella o brutta, più efficace in quelle in cui tutto ti è contro. Grazie zio!

Veniamo al dunque, diceva sempre, e tirava fuori quelle storie nelle quali lui era presente, testimone di vicende che appartenevano alla storia. Per farvi partecipi dell’incanto fantastico in cui viveva la mia coscienza, vi dico di quando mi raccontò di quel suo amico americano nella guerra di Corea, e il racconto era tanto coinvolgente da crederlo presente ai combattimenti. Usava la prima persona nella narrazione, il cosiddetto io narrante, e ci cascavo ogni volta. 

Ma zio, a quel coreano davvero staccasti la testa con un pugno?

E volò sul tetto del capanno, mi rispose.

A fare bene i conti a quei tempi lo zio poteva avere sette o otto anni. Non m’importava.


2 febbraio 1959

Ritchie Valens non aveva ancora compiuto diciott’anni e già aveva composto sette canzoni, brillante innovatore di leggende musicali del Sud America. Una stella nascente che brillò con la luce di una meteora.

Big Bopper faceva il dj e aveva lanciato la memorabile Chantilly Lace, che molti interpretarono e, come spesso capita, nessuno meglio dell’autore.

E infine Buddy Holly, ventidue anni e precursore nell’evoluzione del Rock’n’roll, e così la prima canzone registrata anni dopo dai Beatles fu una sua cover.

Zio Stefano sedeva su uno sgabello, il busto inclinato in avanti, e con un gesto della mano scostò il cappello da cow-boy in su, perché le parole non fossero trattenute ma volassero libere. 

Da dieci giorni giravamo per il Midwest onorando il Winter Dance Party Tour.

Dal Minnesota all’Wisconsin, e ci attendevano lo Iowa e poi Illinois, Kentucky e Ohio. Innumerevoli concerti in tre settimane, dal 23 gennaio al 15 febbraio, da tenersi in ventiquattro città, e si aggiunse questa del 2 febbraio al Surf Ballroom di Clear Lake, che non era in programma. Il pullman in quel gelido inverno trasportava una parte della storia del Rock’n’Roll. E non era all’altezza, il pullman, un rottame della guerra con il sistema di riscaldamento che non funzionava.

E Buddy Holly intonò:

Bene, quello sarà il giorno in cui dirai addio
Sì, quello sarà il giorno in cui mi farai piangere
Dici che te ne andrai, sai che è una bugia
Perché sarà il giorno in cui morirò
 

– Buddy, non ne hai una un po’ più allegra?

E così attaccò Ritchie:

Per ballare la Bamba,
è necessaria un po’ di grazia.
Una poca de gracia para mi para ti.
Sempre più in alto
Per te lo farò.
Yo no soy marinero, soy capitan.

Il pullman era un frigorifero viaggiante, teneva pesci al fresco, e i pesci eravamo noi.

Big Bopper tossì, da quattro giorni buttava giù aspirine e dormiva nei trasferimenti. Sì destò e sotto l’influenza della Bamba chiese:

Por favor, la mia chitarra, e con la mano a forma di cornetta del telefono:

Ciao, piccola.Sì, questo è il Big Bopper che ti parla

e prese a suonare e cantare,
Chantilly Lace aveva un bel visoE una coda di cavallo appesa giùE intanto che zio Stefano raccontava, colsi nostalgia nella voce e nello sguardo. Me le aveva già narrate quelle confidenze su meravigliose ragazze che ai suoi tempi giravano con camicette legate alla vita, gonne a campana e strepitose code di cavallo. 

Non era una moda, mi diceva, era un simbolo. Non mi sarei mai innamorato di una ragazza che non avesse la coda di cavallo. 

Un sussulto nella sua camminata e una risatina nel suo parlareFa girare il mondoEd è proprio così, si entusiasmava zio Stefano, quelle ragazze muovevano il bacino e le gonne formavano cerchi nell’aria, che dalla strada salivano lassù. 

Non c’è niente al mondo come una ragazza dagli occhi grandi
Per rendermi divertente, farmi spendere i miei soldiFarmi sentire davvero libero come un lungo collo d’oca

É così, nipote, diceva lo zio rimarcando con il dito indice il gesto di prima, su e giù. Divertiti, spendi i tuoi soldi, e allunga il collo per sapere come stanno le cose

E il dito indice adesso lo alzava sopra la testa e faceva roteare il braccio. 

Fare il mondo andare ‘round, ‘round, ‘round.L’energia è circolare, sentenziò, e lasciò un lungo silenzio prima di riprendere il racconto.

Giungemmo al Surf Ballroom e Buddy scherzava con una pistola e diceva io fino a Fargo ci vado in aereo. Non voglio crepare su quella carretta ambulante. E aveva già parlato con quelli dell’aeroporto vicino. C’era un charter da turismo a disposizione, un giovane pilota e tre posti per passeggeri.

Il Destino è imprevedibile. Si manifesta di continuo e nessuno lo riconosce, tranne quando si è ormai svelato nei fatti, allora tutti a sbattere la testa e dire era destino. Quello che successe quella sera è una delle sue esibizioni più clamorose. E adesso te la racconto.

La sala era gremita in ogni angolo, birra e bourbon, e a un certo momento nessuno era più seduto. Con il Rock’n’roll non è possibile. Buddy Holly aveva ottimi musicisti, il giovane Wailon Jennings, che diventerà una star del country, e suonava il basso, Tommy Allsup, chitarra elettrica, country-man anche lui. Francis Di Mucci detto Dion e il suo gruppo. La migliore delle serate finora eseguite in quel tour massacrante. Big Bopper aveva voce rauca per via dell’influenza e regalò un’interpretazione singolare. Ritchie Valens travolgente con la sua Come On, Let’s Go e poi prese con La Bamba e il pubblico si scatenò.

Per tre di loro era l’ultima volta, e nessuno lo sapeva. Nemmeno l’Oracolo di Memphis notò segni di premonizione. 


3 febbraio 1959

Il piccolo aereo rimediato da Buddy offriva tre posti. Subito Dion Di Mucci rinunciò perché il biglietto per lui non era congruo al servizio. Buddy teneva ai suoi musicisti, voleva risparmiare loro una sofferenza di cinquecento chilometri, ma Jennings aveva già ceduto il posto a Big Bopper, rosso in viso e febbricitante.

Ed ecco le prime frasi pronunciate non dai poveri umani, come ritengono quelli che credono nella materia, al Big Bang e stupidaggini del genere, ma dal Destino in persona, che quella sera si presentò nel più classico dei suoi vestimenti, con mantella nera, larga, e sotto l’arma letale che falcidia poveri e ricchi, buoni e cattivi.

– Wailon, mi lasci solo, che tu possa schiantare su quel maledetto pullman – e Buddy era davvero alterato.

– E allora che tu possa fracassarti al suolo con quel rudere da turisti.

E in quel momento Jennings non aveva pronunciato semplici parole, ma sfornato una frase che pesava Sixteen Tons, come la canzone di Johnny Cash, che negli anni cantò con tutto quel peso sull’anima.

C’era preoccupazione fra gli artisti. Pensavano a quel viaggio di trasferimento in pullman e tutti avrebbero preferito l’aereo.

– Non ho mai volato in vita mia – disse Ritchie Valens a Tommy Allsup, il chitarrista di Buddy Holly – cedemi il posto.

– E perché? Poi Buddy se la prenderà con me, come ha fatto con Wailon.

– Ti prego, esaudisci il mio desiderio.

– Senti, ragazzo, facciamo così. Tiriamo a sorte.

E lì c’era il dj del locale. Lanciò lui in alto la monetina. 

E Ritchie Valens non capì il guaio in cui s’era ficcato. Il Destino gli era sempre stato amico. A tredici anni suonava in un complessino della scuola e le ragazze impazzivano per lui. In pochi anni una carriera che i critici chiamarono fulminante, fino all’appuntamento fatale, che in seguito toccò a molti musicisti. Le morti giovani, come gli stessi critici le nominarono. Jimmy Hendrix, Jim Morrison, Brian Jones, Janis Joplin, Kurt Cobain e Amy Whinehouse, e quanti altri… ma loro ebbero più tempo per esprimersi. Sesso, Droga & Rock’n’roll… morti annunciate. Non così per i tre di quella notte. Metto la mano sul fuoco per loro, che furono i primi scelti dal Destino a immolarsi al mito delle leggende giovani, in quello che Don McLean chiamò “Il giorno in cui la musica morì”, e tutti annuirono. 

Fu così, caro nipote, e lo scoprimmo anni dopo, grazie ad American Pie, con quei versi immortali e agghiaccianti di quando lui, il futuro cantautore Don McLean, a febbraio di quel 1959 era un ragazzo che distribuiva i giornali e lesse in prima pagina la notizia, e si commosse per Maria Elena, la moglie di Buddy Holly che attendeva un figlio ed era già una giovane vedova.

Il pilota aveva vent’anni, e nel condurre un aereo non possedeva l’esperienza che invece i suoi passeggeri avevano nella musica.

Tante coincidenze sull’incidente. La strumentazione non era all’altezza, nevicava fitto e minacciava di peggio, forse qualcuno aveva sconsigliato il volo. Dopo il decollo l’aereo, pare, volò verso terra credendo di salire. Altre combinazioni, e altre ipotesi.

Autentici invece i sogni di tre ragazzi, tre nuove stelle a brillare, anche se il cielo era scuro e tempestoso. 

Ritchie Valens, Buddy Holly e Big Bopper, lasciati gli amici alla sala dell’ultimo concerto, pensavano a quella del giorno dopo.

– È sempre la Bamba che fa sobbalzare le persone, mi scrivono lettere dal Messico – diceva Ritchie, ma subito attimi di paura, che succede? Non canterò la mia nuova, non canterò per niente. Ho solo diciott’anni.

– Mi comprerò camicie nuove a Fargo – si compiaceva Buddy, ma subito attimi di paura, che succede? La mente si libera di tutto e resta un solo pensiero. Maria Elena, ti amo. 

– Ragazzi, non sto bene – si lamentava Big Bopper – Ringrazio Wailon se continuerò questo tour, ma subito attimi di paura, che succede? Pronto, chi parla? Signore dei Cieli, sei tu?

I raggi di sole al mattino si scagliarono su quel giorno chiamato 3 febbraio. E poi sul mondo che doveva ancora venire. Illuminarono la strada, a noi, e a quelli che seguirono. 

Caro nipote, come sai la moglie di Buddy Holly, ricordata da McLean, per il dolore perse il bambino che aveva in grembo. Poi nella vita fece tutto per quel giovane che le aveva donato una rosa e chiesto di sposarla al primo incontro. E alla fine Maria Elena pensò alla cosa più grande, una Fondazione liberale, aperta a tutti, per educare i giovani alla musica.  


Appendice

AMERICAN PIE  

(Il giorno in cui la musica morì)

Ricordo, tanto tempo fa
come quella musica mi facesse sorridere
e sapevo che se avessi avuto la mia occasione
avrei fatto ballare quella gente
e forse sarebbe stata felice per un po’

Ma febbraio mi faceva venire i brividi
ogni giornale che consegnavo
brutte notizie davanti alla porta
non potevo andare avanti così

Non posso ricordare se ho pianto
quando ho letto della sua sposa rimasta vedova
ma qualcosa mi ha toccato profondamente
il giorno che la musica è morta

Arrivederci, miss American Pie
ho guidato la mia Chevy sino all’argine
ma l’argine era secco
e loro, buoni vecchi amici
stavano bevendo whisky di segale
cantando – questo è il giorno in cui morirò
questo è il giorno in cui morirò.

 (Don Mc Lean, 1970))

Prologo

Quel giorno in cui zio Stefano mi raccontò tutto questo, a un certo punto si tolse la giacca a frange, e le rose rosse ricamate sulla sua camicia nera brillarono come stelle in cielo. Abbassò il capo, commosso, e portò il suo cappellaccio al cuore.

La storia di Eddie Cochran te la racconterò un’altra volta, ma adesso cerca la canzone intitolata Three Stars che lui dedicò a Buddy Holly, suo amico, e a Ritchie Valens e Big Bopper, con i quali condivideva i battiti del Rock’n’roll.

Zio Stefano diceva di essere stonato, e così mi recitò la canzone di Eddie Cochran come fosse una poesia. Lui era un patito di Carmelo Bene e la lesse allo stesso modo che l’attore leggeva Majkovskij o Pasternak.

THREE STARS

Guarda in alto nel cielo, verso nord
Ci sono tre nuove stelle che brillano brillantemente
Stanno brillando così luminosi dal cielo lassù
Cavolo, ci mancherai, tutti ti mandano il loro affetto
Ritchie, stavi appena iniziando a realizzare i tuoi sogni
Tutti mi chiamano ragazzino, 

Ma tu avevi solo diciassette anni
Ora Dio Onnipotente ti ha chiamato, da così lontano
Forse è per salvare qualche ragazzo o ragazza
Chi potrebbe essere andato fuori strada
E con la tua stella che splende nella notte buia e solitaria
Per illuminare il cammino e indicare la via, la via giusta
Cavolo, ci mancherai, tutti ti mandano il loro affetto
Buddy, posso ancora vederti, 

Con quel sorriso timido sul viso
Sembra che i tuoi capelli siano sempre stati 

Un po’ scompigliati, e un po’ fuori posto
Ora, non molte persone ti conoscevano davvero o
Ho capito come ti sentivi
Ma solo una canzone da parte tua, solo una tua canzone
Potrebbe far sciogliere il cuore più freddo
Bene, stai cantando per Dio adesso, nel suo coro nel cielo
Amico Holly, ti ricorderò sempre con le lacrime agli occhi
Cavolo, ci mancherai, tutti ti mandano il loro affetto
Vedo un uomo corpulento, il tuo nome è Big Bopper
Dio ti ha chiamato in paradiso, 

Forse per nuova fortuna e fama
Continua a indossare quel grande cappello Stetson 

E divaga davanti al microfono
E non dimenticare quelle meravigliose parole, 

Sai cosa mi piace
Guarda in alto nel cielo, verso nord
Ci sono tre nuove stelle che brillano brillantemente
Stanno brillando, oh così luminosi, dal Cielo lassù
Cavolo, ci mancherai, tutti ti mandano il loro affetto

(Eddie Cochran, 1959)

Fonte: Musixmatch – Compositori: Dee Tommy – Testo di Three Stars © Unichappell Music Inc., Campbell Connelly And Co. Ltd., Elvis Presley Music, Inc.

QUEL GIORNO CON EDDIE COCHRAN

Caro zio, mi lasciasti con la promessa di raccontarmi di Eddie Cochran… non fa niente, ho imparato la tua lezione, che l’oggi e il domani e ieri non esistono perché tutti noi viviamo un solo attimo di eternità, compresi in un punto indefinito. Lui, il più grande musicista capace di ispirare Beethoveen e Bach e insieme Chuck Berry e Fats Domino, Lui sa bene questo, e altro. Grazie zio.

Allora ti dirò di quel giorno che incontrai Eddie Cochran. Era il 7 febbraio 1959 e mi trovavo al Town Hall Party fra il pubblico… e vedo il tuo sorrisino che scherza sul fatto che io non ero ancora nato, e tu solo, per quanto detto prima, sai che io ero là, così come tu eri nella guerra di Corea e a sette anni staccasti la testa a un coreano con un pugno. 

Ooo C’mon everybody 

Andiamo tutti e stiamo insieme

E già non mi trattengo, un incipit che è un invito. É questa la vita, la vita vera, dico a me stesso, e muovo le ginocchia, le gambe, il bacino, senza che me ne accorga, perché è l’energia vitale a fare di me un ballerino, io che prima di allora me ne stavo sul banco a fare i compiti. Lui che sa tutto di noi, delle nostre piccolezze e ingenue aspirazioni, Lui ci guida a suo piacimento.

E la casa tremerà per i miei piedi nudi che sbattono sul pavimento. 

Bene, quando ascolti quella musica non puoi stare fermo. 

Se tuo fratello non farà rock, lo farà tua sorella.

Ooo C’mon everybody.

E applaudo all’infinito, il più bel Rockabilly della storia del Rock’n’roll.

E queste parole le dico a Eddie, dopo lo spettacolo, e parlo con lui, e lui tira fuori quella tragedia, di soli tre giorni prima. Buddy e io eravamo amici, mi dice, debbo fare qualcosa per quei tre ragazzi, debbo rendere loro omaggio.

Il piccolo aereo rimediato da Buddy offriva tre posti. Subito Dion Di Mucci rinunciò perché il biglietto per lui non era congruo al servizio. Buddy teneva ai suoi musicisti, voleva risparmiare loro una sofferenza di cinquecento chilometri, ma Jennings aveva già ceduto il posto a Big Bopper, rosso in viso e febbricitante.

Ed ecco le prime frasi pronunciate non dai poveri umani, come ritengono quelli che credono nella materia, al Big Bang e stupidaggini del genere, ma dal Destino in persona, che quella sera si presentò nel più classico dei suoi vestimenti, con mantella nera, larga, e sotto l’arma letale che falcidia poveri e ricchi, buoni e cattivi.

– Wailon, mi lasci solo, che tu possa schiantare su quel maledetto pullman – e Buddy era davvero alterato.

– E allora che tu possa fracassarti al suolo con quel rudere da turisti.

E in quel momento Jennings non aveva pronunciato semplici parole, ma sfornato una frase che pesava Sixteen Tons, come la canzone di Johnny Cash, che negli anni cantò con tutto quel peso sull’anima.

C’era preoccupazione fra gli artisti. Pensavano a quel viaggio di trasferimento in pullman e tutti avrebbero preferito l’aereo.

– Non ho mai volato in vita mia – disse Ritchie Valens a Tommy Allsup, il chitarrista di Buddy Holly – lasciami il posto.

– E perché? Poi Buddy se la prenderà con me, come ha fatto con Wailon.

– Ti prego, esaudisci il mio desiderio.

– Senti, ragazzo, facciamo così. Tiriamo a sorte.

E lì c’era il dj del locale. Lanciò lui in alto la monetina. 

E Ritchie Valens non capì il guaio in cui s’era ficcato. Il Destino gli era sempre stato amico. A tredici anni suonava in un complessino della scuola e le ragazze impazzivano per lui. In pochi anni una carriera che i critici chiamarono fulminante, fino all’appuntamento fatale, che in seguito toccò a molti musicisti. Le morti giovani, come gli stessi critici le nominarono. Jimmy Hendrix, Jim Morrison, Brian Jones, Janis Joplin, Kurt Cobain e Amy Whinehouse, e quanti altri… ma loro ebbero più tempo per esprimersi. Sesso, Droga & Rock’n’roll… morti annunciate. Non così per i tre di quella notte. Metto la mano sul fuoco per loro, che furono i primi scelti dal Destino a immolarsi al mito delle leggende giovani, in quello che Don McLean chiamò “Il giorno in cui la musica morì”, e tutti annuirono. 

Fu così, caro nipote, e lo scoprimmo anni dopo, grazie ad American Pie, con quei versi immortali e agghiaccianti di quando lui, il futuro cantautore Don McLean, a febbraio di quel 1959 era un ragazzo che distribuiva i giornali e lesse in prima pagina la notizia, e si commosse per la moglie di Buddy Holly che attendeva un figlio ed era già una giovane vedova.

Il pilota aveva vent’anni, e nel condurre un aereo non possedeva l’esperienza che invece i suoi passeggeri avevano nella musica.

Tante coincidenze sull’incidente. La strumentazione non era all’altezza, nevicava fitto e minacciava di peggio, forse qualcuno aveva sconsigliato il volo. Dopo il decollo l’aereo, pare, volò verso terra credendo di salire. Altre combinazioni, e altre ipotesi.

Autentici invece i sogni di tre ragazzi, tre nuove stelle a brillare, anche se il cielo era scuro e tempestoso.

di Abramo Vane

Il mio ricordo del Tricolore è legato al Carnevale, risale a quand’ero bambina,vivevo con la mia bisnonna, e la festa si limitava a un pacchetto di coriandoli o, se andava bene, a un cappello da fata con tutta probabilità appartenuto a qualcun’altra.
Guardavo con invidia le compagne di scuola più abbienti. Sfoggiavano parrucche bionde, vestiti di raso da fatine, principesse, streghe, e poi c’erano cow boy, indiani, spazzacamini. In mezzo a loro io cercavo di sfuggire a quelli che, armati di bastoni di plastica, rincorrevano le bambine per colpirle a tradimento o riempirle di schiuma da barba con bombolette rubate ai loro papà.
Non potevo sfoggiare un costume che mi permettesse di diventare un’altra, anche solo per poche ore. Sul grande carro pieno di fiori sarebbero sfilate le maschere più belle, non io. Per questi motivi non sono mai stata una patita del Carnevale.
Un anno la mia adorata nonnina, vedendomi triste, decise che era giunto anche per me il giorno in cui non mi sarei dovuta sentire meno delle altre. – Che ne pensi se inventiamo qualcosa di diverso? Forse non vincerai nessun premio, ma sarai orgogliosa di portare il costume che ho in mente di confezionare per te.
Prese la sottogonna del mio vestito della prima comunione, comperò due fogli di cartapesta, uno verde e uno rosso, e con tanta pazienza fece delle piccole rose che cucì sull‘abito bianco. Ai miei occhi il più bello che avessi mai visto. Lo indossai, ero al settimo cielo.
– Nonna, se mi chiedono da che cosa sono vestita?
– Rispondi: da bandiera italiana!
Trovarono originale e patriottica l’idea della nonna, vinsi il terzo posto e salii sul carro tanto agognato. La conclusione della giornata fu meno entusiasmante degli anni precedenti. Il sole si nascose dietro le nuvole e cominciò a piovere. Sotto la pioggia i miei fiori di carta persero colore e macchiarono la gonna bianca. Sembravo la versione femminile di Arlecchino, ma la contentezza di avere un vestito unico non me la portò via nessuno e corsi a casa orgogliosa con la coccarda per mostrarla all’artefice della mia gioia. La coccarda per un’improbabile bandiera era nostra, mia e di una nonna fatina.

di Evelyne Arrighi

Il racconto del giorno feriale (dagli autori della nostra scuola di scrittura SCRIVERE IL CORTO)


IL CAVEDIO associazione culturale e sportiva dilettantistica APS ———————————————– segreteria1997@ilcavedio.org

VINO E SCRITTURA, la qualità si riconosce

Dico a mia moglie di prendere dallo scaffale in cantina una bottiglia, di incartarla con un foglio di alluminio, in modo che io non veda l’etichetta, e di portarmela a tavola. L’assaggio, e riconosco il Re dei vini, il Barolo. Mia moglie ha portato un’altra bottiglia, con lo stesso sistema. È un Barbaresco, il fratello minore del Barolo, che io a volte preferisco, perché è meno tannico. E poi lei ha esagerato, e ne ha portata un’altra, il Gattinara lo riconosco da lontano, è il vino che in assoluto preferisco. Sono cresciuto a Spanna e Gattinara, quando avevo quindici anni e s’incomincia a bere vino, dopo quel bicchiere di acqua e vino che mi era stato concesso a dieci.

E adesso fate la stessa cosa con i libri che stanno sugli scaffali della vostra libreria. Non guardate il titolo, prendete e aprite a caso. I romanzi buoni sono ben strutturati, come i vini. I grandi autori si riconoscono. Dal colore, dal profumo, dal gusto delle parole.

Continua il 12 ottobre

Abramo Vane, giornalista e scrittore, insegna alla Scuola di Scittura delle Edizioni IL CAVEDIO. Ha pubblicato libri di narrativa, d’arte, di poesia.

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IL ROMANZO, un divenire continuo

Se leggiamo i critici, com’è giusto che sia, e li confrontiamo nel tempo, ciò che hanno detto fra di loro trent’anni fa e ciò che dicono oggi, leggeremo un po’ di tutto.

La crisi del romanzo che ogni tanto salta fuori, ciclicamente (e non è il ciclo di cui parlava la professoressa di chimica), la ricerca di riferimenti che cadono davanti all’esclamazione del re nudo, i saputelli che condizionano le coscienze, il potere delle case editrici che si adeguano al pensiero dominante, i valori della tradizione messi a tacere davanti al dio denaro… tutto vero!

E ripartiamo da qui, per capire la plasticità del romanzo. Il nostro lavoro quotidiano alla ricerca di formule e di strutture si rispecchia in una visione generale su questo tipo di espressione. Il romanzo è in continuo divenire. Si alimenta di ogni altra forma letteraria e artistica, e non importa se questa vive in momenti di stagnazione, perché il romanzo è in grado di rinnovarla, di donarle ancora il soffio vitale.

Per questo, nella sua essenza, il romanzo appare sempre incompiuto. E sempre attuale.

E poi c’è la tecnologia che avanza e si impone, fa piazza pulita delle improvvisazioni. Il romanzo resiste, e non teme niente e nessuno.

Continua il 5 ottobre

Abramo Vane, giornalista e scrittore, insegna alla Scuola di Scittura delle Edizioni IL CAVEDIO. Ha pubblicato libri di narrativa, d’arte, di poesia.

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di Daniele Gaeta

Il telefono squillò nel mezzo di quello che poteva apparire come un tranquillo tè tra amiche e che invece era un dibattito tra le personalità più importanti del Paese.

Tutte tacquero, a strillare era nientemeno che la linea rossa, di solito in silenzio.

La Presidente si congedò preoccupata, si trasferì veloce nello studio ovale chiudendo la porta. Si sedette e, mordendosi le labbra tra i denti, chiese “Anna, sei tu?”, ignorando ogni cerimoniale.

Dall’altra parte la voce accusò: “Avete passato ogni limite!”. “Con il vostro attacco di ieri, prima i droni, poi il bombardamento, avete rivelato ogni inganno! Basta, è finita, questa volta le vostre azioni non rimarranno impunite!”.

Miss President digitò un codice su un pannello vicino che si aprì rivelando una teca con chiavi e pulsanti che fino a quel momento non erano mai stati premuti.

Tentò di giustificarsi con l’altra donna: “Siamo dovuti intervenire per evitare altri caduti…” ma lei la interruppe prima che potesse finire: “Elizabeth, mi dispiace, siamo arrivati al punto di non ritorno! So bene che non ci saranno né vincitori né vinti ma solo l’apocalisse… e la colpa di tutto questo è solo vostra!”.

Ci fu un lungo silenzio carico d’angoscia, il dito di Elizabeth si trovava sull’interruttore, il primo della sequenza che portava al pulsante rosso, quello da cui non si poteva tornare indietro. Tratteneva il respiro, era certa che Anna dall’altra parte della linea si trovava nella stessa esatta posizione, forse incerta sul da farsi. Forse c’era ancora una speranza.

“Colpa nostra, colpa vostra!” riprese Elizabeth “In verità neanche tu più ricordi chi abbia iniziato questo tragico gioco, questa guerra è costata fin troppo senza dimostrare niente a nessuno. E poi, lo sai, entrambe siamo donne, noi doniamo la vita, non la prendiamo”.

Ancora un lungo, lunghissimo silenzio, poi lo schiocco improvviso della chiamata che viene interrotta. Il dito della Presidente tremava sull’interruttore.

Attese ancora un momento ma non accadde nulla. Rigirò le chiavi, richiuse la teca, portò le dita alla tempia ad asciugarsi il sudore, stava ancora tremando.

La donna più potente della terra provò a riprendere il controllo, cercò di non pensare a quanto il mondo intero fosse stato vicino al tracollo, si alzò e tornò nella stanza vicina dove le altre la fissavano con ansia.

Miss Elizabeth si rivolse al Ministro della Difesa e le ordinò con piglio deciso: “A qualsiasi costo dobbiamo ottenere la pace! So che i droni stanno per alzarsi in volo, fermate subito il secondo attacco! Piuttosto… mettete dei fiori sopra quei droni!”

Daniele Gaeta. Affascinato dalla creatività in ogni forma e curioso fin da piccolo, si ritrova con la “testa tra le nuvole” nei momenti più inopportuni, ha riscoperto la passione di affidare le sue fantasie alla penna grazie alle favole inventate per i suoi figli.

Selezione di racconti da XI Concorso “Il Corto letterario e l’illustrazione”, NARRATIVA (Scrivere il corto) RACCONTI DI GUERRA E DI PACE ( Sezione dedicata a Maniglio Botti)

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