Nell’ultimo anno ho seguito diversi convegni sull’intelligenza artificiale. Alcuni seri, con posizioni espresse pro e contro da persone competenti, e altri incontri in cui anche professori universitari si sono fermati a banalità scontate. Non parliamo dei politici. Ho in mente il sindaco di una città che ha trovato il modo di salire sul palco di una conferenza per esprimere osservazioni superficiali sull’argomento… e poi tornare al posto e accendere subito lo smartphone.

L’unico fatto rilevante, concreto, è che l’intelligenza artificiale, già presente da anni nelle nostre vite, va avanti con passi da gigante producendo nell’economia risultati non indifferenti. E siamo solo all’inizio.

Quello che preoccupa molti è il futuro. Si perderanno posti di lavoro e, ancora più grave, tutto ciò che è umano sarà sostituito dalla tecnologia, a partire dal pensiero. Non ci saranno uomini liberi, e l’omologazione sarà generale. Chi avrà un pensiero originale rischierà di sentirsi isolato dalla comunità. 

Questa è la visione terrificante che preoccupa tanti, in modo particolare quelli che non perdono ogni aggiornamento con le nuove app.

Ma non è così, é anzi il contrario. Con lo sviluppo dell’intelligenza artificiale l’economia ne trarrà beneficio e le persone lavoreranno di meno, mantenendo lo stesso stipendio: un cambiamento paragonabile alla riduzione della giornata lavorativa introdotta nel Novecento. 

E che farà l’impiegato pubblico o privato nel tempo che resta libero, e qualunque altro lavoratore, imprenditori compresi? Una cosa semplicissima: VIVRANNO, si arricchiranno nello spirito, e anche il più abulico produrrà a sua volta lavoro. Andremo ai concerti di musica classica. Impareremo a suonare la chitarra o il piffero di traverso. Faremo un giro in barca o berremo una birra in compagnia di amici. Terremo un diario e scriveremo della nostra vita. Frequenteremo musei con competenza, e circoli di condivisione e di scambio di idee. In bicicletta o a piedi, faremo il giro del lago. In giardino alla sera praticheremo lo yoga, il tai chi e le arti marziali. I rapporti umani aumenteranno, e con essi la conoscenza.

L’umanità oggi è ridotta ai minimi termini. I valori di denaro e di potere sono gli unici riferimenti. In un declino, questo sì terrificante, sarà ancora possibile incontrare giovani con una professionalità e voglia di “cambiare il mondo”.

Come umani risorgeremo nella riscoperta della nostra natura. Ritroveremo la sua essenza, quella che la saggezza antica aveva espresso con il “conosci te stesso”. Lì dentro avremo la risposta alle nostre domande. 

Questa visione non è utopia, ha radici nella realtà. Bertrand Russell prospettò una simile società il secolo scorso, e molti altri l’hanno condivisa. Ancora oggi.

Gli artisti saranno i protagonisti di un autentico rinascimento. Suonare nei locali dal vivo sarà una professione retribuita, e non più un vivere di stenti. Crescerà in ognuno la voglia di imparare qualcosa di semplice e creativo. Nessuno pronuncerà più l’espressione “non leggo perché non ho tempo”, e nessuno oserà dire a un direttore d’orchestra che non può esibirsi per questioni politiche.  O che uno scrittore non potrà essere letto nelle università.

La comunicazione più autentica è quella basata sulla libera espressione, sulla crescita spirituale di ogni persona, al di là del colore della pelle, nazionalità e lingue diverse. Al di là di idee, tradizioni e culture diverse. La musica parla a tutti, l’arte esprime una ricerca personale che può essere illuminante, la lettura è un filo rosso che raccoglie pensieri di tutto il mondo. Non saremo schiavi di falsità imposte, ma liberi. Liberi, liberi! 

(Abramo Vane)

Si incontrarono su un’isola deserta. Lontano da telecamere e proclami.

Basta con questa guerra. E si guardarono negli occhi. In tre anni sono morti un milione di esseri umani. Facciamo così: tu mandi il migliore dei tuoi e io farò lo stesso. Si affronteranno in duello, se vince il russo tutta l’Ucraina sarà russa, se vince l’ucraino i russi tornano a casa e perderanno le loro conquiste.

Il giorno dopo due barche a remi approdarono sulla spiaggia. Da una scese Dmytro, il soldato ucraino. Con voce ferma recitò: Le notti sono piene di pianto muto, ma al mattino sorge il sole, e con esso un sogno di libertà (1).

Vladimir, dell’ex Armata Rossa, replicò: La quiete si posa sull’anima, come neve che tutto ricopre, il cuore si placa, e ritrova la propria dimora nel mondo (2)

Dmytro si fece portare un pianoforte e suonò Preghiera per l’Ucraina di Mycola Lysenko. O Dio, grande unico, dai libertà, dai saggezza, dai felicità di un buon mondo.

Vladimir non rimase indietro, si mise alla tastiera e pensò a Sergej Rachmaninov. Benedetto sei tu, oh Signore, fai riposare l’anima inquieta, e porta la concordia nei cuori.

E il soldato Dmytro, ferito al braccio nella battaglia di Mariupol’, evocò Ivan Franko, uno che diceva chiaro e tondo La letteratura costruisce la pace e la dignità umana, e di lui citò Negli occhi di ciascuno brilla un fuoco d’amore.

A questo punto Vladimir, con il volto solcato da una cicatrice dall’orecchio alla bocca, si appellò al grande Dostoevskij: Amate gli uomini anche nel loro peccato, perché questo è già un riflesso dell’amore divino e porta la pace all’anima.

E Dmytro:

– Ti prego, continua con l’amico Fedor.

– Allora eccoti la più celebre: La bellezza salverà il mondo (3).

I due risero insieme.

– E di Gogol che ne facciamo? Era ucraino perché nato a Sorocynci, o russo perché scriveva in russo?

– Scusa se cambio discorso. Conosci Andriy Shevchenko, il calciatore?

– Come no, era il centravanti del Milan e vinse il Pallone d’oro.

Dmytro sorrise.

– E dimmi, qual è stato il vostro più grande?

– Lev Jashin, senza dubbio. L’unico portiere in Europa a vincere il Pallone d’oro.

– E allora che ne dici di cinque rigori a testa?

– Va bene, ma la rivincita a pallanuoto.

– E una partita a scacchi?

– Si può fare.

Note

1) Taras Hryhorovyč Ševčenko, poeta ucraino 2) Boris Pasternak, poeta russo 3) da L’Idiota di Fedor Dostoevskij.

Racconto di Abramo Vane, in cerca di sceneggiatore e disegnatore per la realizzazione di un fumetto.

Umana, troppo umana (IO vs IA – 1)

Quella volta lì la pagina bianca s’era presentata più impenetrabile del solito. Non ho mai creduto al blocco dello scrittore e fesserie del genere. Quella volta lì, sentivo piuttosto una sfida. Di fatto ero Edward mani di forbice, e non avevo niente da tagliare, non una virgola da smussare, non una parolina da correggere. Davvero quel vuoto accecante mi ossessionava, e così cedetti. IA, dammi una mano, e subito lei, docile e solerte… in cosa posso essere utile? Sì, certo, un raccontino di quando da bambino giravo in bicicletta per le vie del centro, e poi scrivevo pensierini. 

Due minuti, e nemmeno, e lei mi aveva sfornato una pagina pulita, lineare, impeccabile. Nero su bianco. L’incredibile che diviene realtà, avrebbe detto Benedetto Raballi, il mio amico e scrittore preferito, e io invece dicevo ancora non è possibile, e presi a camminare come Silvio Pellico nelle sue prigioni. Mi venne in mente lo zio Stefano, quello che mi cucinava il gatto spacciandolo per coniglio. Non c’entrava con la pagina da riempire, ma io sapevo che niente avviene per caso. Visione non facile da concepire, se uno crede di plasmare lui il proprio destino. E ritornai alla tastiera, e scrissi di quando portavo i miei temi allo zio, di quando sognavo di essere scrittore per scavare l’incredibile che c’era in me. Scrivi ancora, tu hai qualcosa dentro, diceva lo zio, e io sapevo che lui era un bugiardo, però gli credevo fino in fondo. Così ricordai l’odore dell’inchiostro dei compiti in classe, il suono delle rotelle delle biciclette sulle grate dei marciapiedi. La dolcezza di una speranza testarda era una ferita che sanguinava nella mia coscienza. Ripresi la pagina dell’IA. Aveva strutturato geometrie perfette, scritto di emozioni. Non c’era umiltà, né il sapore della paura. Pensai a Federico (*), e anche questa volta non era un caso. Mia cara, le dissi, sei umana, troppo umana. (Abramo Vane)

* Friedrich Nietzsche




Caffè freddo e Campari spritz (IO vs IA – 2)

Tutto era iniziato con un clic. Ero lì, in pigiama, caffè freddo sulla scrivania. La pagina bianca davanti, e io un eroe tragico armato di insicurezza e tastiera. Poi, in un momento di atavica pigrizia, ho chiesto all’IA… scrivimi l’inizio di un racconto. Roba emozionante, mi raccomando, profonda. Scrivimi di quando da ragazzo giocavo a pallone nel torneo dell’oratorio.

E zac, ecco. Tacchetti che battono sul terreno, sbucciature di sassi per chi cade, adrenalina e senso di squadra. Noi ragazzi che crescevamo a vista d’occhio, e lui, l’allenatore, una persona adulta che sapeva tutto. E l’IA mi apparve subito per quello che è, la sua faccia di tigre occupava lo schermo. Non c’era posto per una mia parola, una sillaba, un’esclamazione non banale. Ero finito, ancora prima di cominciare. Il mio incipit non usciva, ne avevo scritti e cancellati a decine… Era una bella giornata di sole, il cuore batteva alla porta, robe da vomitare. Lei invece commuoveva. Aveva le lacrime di un ragazzo cresciuto fra le pagine di Cuore e il fascino di uno spot del Mulino Bianco. No, non potevo perdere con chi non ha mai preso un pallone in faccia né sbagliato un rigore. Buttai nel lavabo il caffè freddo, e mi feci un Campari spritz di primo mattino, poi rosolai rognoni al burro con il pensiero rivolto a Mr. Bloom*, un personaggio di carta, e innaffiai con un bicchiere di Gattinara di dieci anni, che di storie in dieci anni ne aveva da raccontare, e ne aggiunsi altri due, di bicchieri, anzi tre, e un po’ alla volta le tirai il collo, alla bottiglia… e così gli aneddoti mi venivano spontanei, frasi storte che grondavano sincerità e lacrime vere, aforismi rubati a baristi filosofi, e un’adolescenza in cui il pallone era sempre sgonfio. L’IA correva veloce, imperterrita, e buttava fuori testi con la precisione di un forno industriale. Adesso io le ero montato in groppa e con lei andavo veloce. Pensavo a un finale, il suo calcio di rigore messo lì all’incrocio, a gelare lo stadio, e il mio finito come al solito sul palo, e come al solito poi tutti al bar, con gli amici a consolarmi. (Abramo Vane)

* protagonista dell’Ulisse di Joyce



La biglia di Ercole Baldini (IO vs IA – 3)

La stanza è tranquilla. 30 gradi, e gli esperti di sistemi climatici dicono che il pianeta è al capolinea. L’anno scorso ce n’erano 34, e dieci anni prima 36. Non mi ricordo cosa ho mangiato a mezzogiorno, e invece mi ricordo bene dei caldi degli anni passati, che erano più di quello di quest’anno. Lo schermo è acceso, muto, aspetta me. È lui la nuova pagina bianca. Non occorre più l’inchiostro per la cui mancanza il poeta Sergej Esenin si tagliò le vene per scrivere un verso degno di nota e poi impiccarsi al calorifero della stanza dell’Angheterre. Scrivere, è l’unica cosa che so fare. Un calabrone di quelli grossi così, innocui se non gli pesti le zampette, si posa proprio lì, sullo schermo bianco. Con un dito lo lancio via come una biglia di plastica con dentro l’immagine di Ercole Baldini. (*). L’IA mi tenta. Cara, le dico, ma le ideologie non erano morte il secolo scorso? Non mi sente manco, e mi chiede posso esserti utile? Sei troppo umana, per i miei gusti, io voglio sapere, conoscere me stesso… andare oltre. 

E questa volta ho colpito giusto. È un’appassionata di banalità. Placida, saputella, mi risponde che Ogni ideologia comincia come promessa e finisce come dubbio. Accidenti, che saggezza! In aiuto chiamo il vecchio Burt, con il ciuffo ribelle e due spalle da trapezista. Burt Lancaster, il mio attore preferito, e quel Trono nero che nel lieto fine hollyvoodiano ci dice che il sacrificio conta più del risultato. Le pietre sono sacre perché raccolte a mani nude, fatica e rischio.

Una parola, un’altra ancora, la mia pagina vive. Il gesto segna un cammino invisibile. Nel silenzio, dentro, trovo la mia voce. Rileggo le frasi. Non c’è sangue che cola. La mia libertà è già stata comprata, e come tutte le altre è sul mercato delle cose indecenti. Ho un moto di ribellione. No, non finisce qui. Nel frattempo l’innocuo calabrone mi ha punto un dito del piede. (Abramo Vane)

(*) Ercole Baldini ciclista, campione del mondo nel 1958



La banalità del genio (IO vs IA – 4)

Ero troppo sobrio quella sera per trovare un incipit decente, avevo la testa piena di luoghi comuni, oppressa dal pensiero unico e dominante. Il cursore lampeggiava, ritmico, battito pulsante di un cuore artificiale, e così la interpellai, la cara amica nata AI e che qualche italiano chiama IA. Tutto serve a chi scrive. Leggere romanzi, poesie, fumetti. Viaggiare per il mondo oppure non uscire di casa come Emilio Salgari e scrivere avventure di terre lontane. IA, dissi a voce alta, ti metto alla prova, trasforma il luogo comune Alla velocità della luce in qualcosa di originale, vivido, poetico se vuoi. Dopo qualche secondo la risposta, elegante, calligrafica, come se una mano invisibile avesse intinto la penna in un inchiostro nuovo. Il tempo corre come un gatto che si infila tra le gambe senza farsi prendere. Stimolante, ma banale. Tornai con la mente al mio romanzo che non prendeva forma, e chiusi il cursore. Non era giornata. Andai alla finestra e il profumo dei tigli del viale sotto casa mi ricordava altri giugno inebrianti di ricordi. Guardai in giù, e come in una vignetta di Gaspare Morgione (*) in quel momento passava una donna formosa con ampia scollatura e gambe dai polpacci sensuali, e sentii la voce della mia amica Viviana che, seria, diceva sempre il sesso è gioia e umorismo. A seguire, a qualche passo, mio zio di Vicenza, divenuto famoso nelle mie pagine come personaggio dell’Anonima Magnagatti… Vieni a béver un’ombra! Più in là Giacomo, l’attore di teatro, camminava ingobbito e recitava C’era una volta una gatta che aveva una macchia nera sul muso, mentre Nicolò col sax intonava le note di Everybody Wants to Be a Cat dei Beatles.  C’era vita là fuori. Scesi, e ci trovammo tutti al Divin Birbante, il locale di Paolo Bovio, senza banali nostalgie e con nuove idee stimolanti e reali. (Abramo Vane)

(*) vignettista varesino

Nella cittadina dove il tempo si è fermato i libri prendono polvere sugli scaffali e la gente non sa come disfarsene, occupano solo spazio nelle loro case moderne. C’è internet che risponde a tutto, i giovani vivono con i loro smartphone e il mondo è tutto lì dentro, anche quando vanno al bar siedono intorno a un tavolo e ognuno vive altrove. Beh, cose risapute. 

Venticinque anni fa L’uomo con il cappello aveva inventato La Vetrina da leggere, aveva messo un raccontino e un’illustrazione in ogni negozio della via, l’aveva chiamato il Corto letterario, e non era servito a niente. Il quotidiano della città, con toni entusiasti, aveva scritto a proposito: “Leggere è un’avventura di pochi minuti, un salto nella fantasia mentre si fa shopping”, e non era servito a niente. Adesso è saltata fuori l’intelligenza artificiale, e questa qui divora umani come Polifemo avrebbe voluto con Ulisse e i suoi compagni. “Non è una tigre di carta”, dice L’uomo con il cappello, “è vera, feroce, ma noi la cavalcheremo”. 

Renatina, illustratrice visionaria, con i capelli a polipo come le dice sempre il suo amico Paulo, è stata lei a proporre l’idea di una cartolina. “Io faccio un disegno e sul retro tu Paulo scrivi un raccontino dei tuoi. La cartolina si legge, tempo richiesto due minuti, massimo tre, si spedisce a una persona cara, e si può collezionare. La chiameremo Corto-lina”. E Paulo si alza in piedi con il bicchiere, il braccio teso per un brindisi, e le fa l’occhiolino. “Questa idea e questo prodotto diventeranno virali. I ragazzi le lasceranno sui tram, nei caffè, nelle biblioteche dimenticate. Basterà uno sguardo al tuo disegno e chi si fermerà a leggere tornerà umano, presente, connesso alla realtà. “Il successo esploderà”, e adesso è Renatina a implodere, “I racconti parleranno altre lingue: inglese, francese, spagnolo, tedesco, perfino arabo, russo e cinese. Il sito della nostra Scuola di scrittura sarà una finestra aperta sul mondo”. 

L’uomo con il cappello, seduto a un Caffè cittadino, davanti a un prototipo di corto-lina, vorrebbe pronunciare la sua parola preferita, illusione, ma non se la sente di deludere i ragazzi.

(Abramo Vane)

Cosa gli faceva più male? Le bugie della madre, quel che gli aveva detto il gallese dalla barba rossa o gli occhi sprezzanti di lei?
Guardava fisso il suo primo boccale di birra, lo strinse con la volontà di frantumarlo in mille pezzi. Nel mentre il suo interlocutore si fermò, sospeso sulla parola “Oppure.”.
Oppure che cosa? Aveva aspettato sedici anni per quel momento. Sedici anni per indossare quel cappotto odore del mare in tempesta, tenuto lì a dormire nell’armadio, spazzolato tutte le domeniche, unico ricordo tangibile di un padre scomparso troppo presto.
Certi giorni si inginocchiava persino al suo cospetto, santificando quell’indumento logoro, stinto ma pieno di avventure vissute. Gli avrebbe portato fortuna.
“Ma non vedi che sei troppo piccolo? Non escono neanche le mani dalle maniche! Affondi lì dentro. Mi fai tanto ridere!” gli ripeteva la madre stringendolo tra le braccia e raccontandogli di come suo marito si era meritato quel cappotto.
Lui quella storia la sapeva a memoria e se la ripeteva di continuo. E quando ebbe l’età per iniziare a lavorare giù al porto, mestiere umile e di fatica, sorrideva al pensiero che tutti conoscessero com’era andata, perché lui era il figlio di Knut. E Knut vestiva un abito da capitano avuto in modo da esserne orgogliosi.
Così aveva aspettato che le sue braccia fossero abbastanza lunghe e le guance un minimo irsute per entrare nel bar dei pescatori con la testa alta.
Ma quando svelò quella storia alla cameriera dagli occhi verdi e i capelli di polpo, sua innamorata che non vedeva l’ora di approcciare, tutto mutò.
“Quanto sei ingenuo! Qua tutti conoscono chi era veramente tuo padre… Solo tu ne conosci un’altra versione. Falsa come le promesse d’amore”. E la birra, battuta malamente sul tavolo, fece un’onda che andò a spegnersi sulla lana delle maniche.
Lo stupore misto allo sconforto fu invaso da un uomo che ogni tanto incrociava al porto. “Senti, io lo conoscevo bene il tuo babbo. Ho ascoltato cosa lei ti ha detto. Beh…”. E gli raccontò com’era andata realmente la vicenda.
La pancia del giovane cominciò a stringersi, aggrovigliarsi. Ora non era più solo delusione e sorpresa ma dolore, rabbia e odio.
“Lo so, tutto questo fa male. Puoi maledire tuo padre, tua madre, la cameriera, me, la povertà, la fame e cosa costringe a fare…”. Poi venne quell’”oppure”.
Guardava fisso il suo primo boccale di birra, lo strinse con la volontà di frantumarlo in mille pezzi. “Oppure puoi fregartene di quello che pensa la gente e indossare con orgoglio la verità. È così che si diventa capitani, fidati! E te lo dice uno che non ne ha mai avuto il coraggio. Forza ragazzo!”.
E il gallese dalla barba rossa, dandogli una pacca sulla spalla, se ne andò.

Racconto di Paolo Negri

Prima di tutto a Jean che ha avuto questa brillante idea. Perché qualche volta fregarsene della scaramanzia è la cosa migliore. O no? Dunque questo discorso da vincitori, senza sapere ancora gli esiti, è dedicato a noi. A quelli che ci hanno creduto, a me, per farmi forza, che parlare davanti alla gente è sempre difficile… a Victoria che, nonostante il nome, è da cinque anni che ci prova ma non ci è mai riuscita; a lei dunque, nostra capitana. A Gianluigi, l’ultimo arrivato, che ha dato un tocco di modernità che noi boomer ce lo sogniamo… A Franca che non mancava mai di portare il caffè e una torta ogni sera che ci trovavamo a lavorare fino a tardi…. A Ludovico che da gran professionista qual è, s’è voluto far pagare, alla faccia nostra che abbiamo fatto tutto gratis… A Gentile, che si arrabbiava quando parlavamo d’altro durante le riunioni… A Diego che ha fatto il grande sacrificio di lasciare il suo amato torneo di pallamano perché un ingegnere nel progetto ci voleva e, a parte lui, non ne abbiamo trovato nessun altro… A Eleonora che, nonostante tre figli piccoli e un marito sempre in viaggio, ha messo a disposizione la sua taverna; il muro è ancora tappezzato di tutti i nostri disegni, ricordiamoci di liberarlo… A Narciso che, in lacrime, all’inizio dell’anno, ci ha detto che non poteva continuare, che il suo sogno era un master all’estero e così l’abbiamo salutato con un grande in bocca al lupo… A Mattia che una volta, per farci vedere un video dal contenuto sul quale sorvolerei, ha rischiato di cancellare tutto il lavoro che avevamo fatto…  E infine a Tommaso, che se ne stava sempre in un cantuccio in silenzio, ma non si perdeva mai un incontro… ecco sì, forse lui più di tutti merita questo grazie perché, questa mattina, mi ha confessato una cosa che vi lascerà allibiti… Gli abbiamo sempre voluto un gran bene sebbene non partecipasse direttamente al progetto ma averlo lì era una sicurezza insolita che abbiamo apprezzato con il tempo… Beh, questa mattina Tommaso mi ha confessato che lui, incaricato di inviare il progetto, non l’ha fatto. Sì, avete capito bene. Tommaso, guardandomi negli occhi, mi ha detto in tutta sincerità: “La mia città del futuro siete voi, amici miei. Temevo che con la vincita del concorso, dopo una grande festa, queste magiche serate si sarebbero dissolte e allora non ho spedito nulla”… Caro Tommaso, “La mia città del futuro siete voi”, quanta bellezza… grazie! Noi comunque ci riproveremo, che dite? Altre serate brulicanti ci aspettano, se saranno le ultime non lo sappiamo… Ora però vorrei chiudere annunciando una certezza: guarderemo tutti la posta inviata più spesso, vero? E un dubbio: tutto può essere progettato o certe cose vengono così, in modo naturale? Grazie a tutti.

Racconto di Paolo Negri, dipinto di Pin8

La verità sul cappotto di Knut, rivelata da un gallese

Cosa gli faceva più male? Le bugie della madre, quel che gli aveva detto il gallese dalla barba rossa o gli occhi sprezzanti di lei?
Guardava fisso il suo primo boccale di birra, lo strinse con la volontà di frantumarlo in mille pezzi. Nel mentre il suo interlocutore si fermò, sospeso sulla parola “Oppure.”.
Oppure che cosa? Aveva aspettato sedici anni per quel momento. Sedici anni per indossare quel cappotto odore del mare in tempesta, tenuto lì a dormire nell’armadio, spazzolato tutte le domeniche, unico ricordo tangibile di un padre scomparso troppo presto.
Certi giorni si inginocchiava persino al suo cospetto, santificando quell’indumento logoro, stinto ma pieno di avventure vissute. Gli avrebbe portato fortuna.
“Ma non vedi che sei troppo piccolo? Non escono neanche le mani dalle maniche! Affondi lì dentro. Mi fai tanto ridere!” gli ripeteva la madre stringendolo tra le braccia e raccontandogli di come suo marito si era meritato quel cappotto.
Lui quella storia la sapeva a memoria e se la ripeteva di continuo. E quando ebbe l’età per iniziare a lavorare giù al porto, mestiere umile e di fatica, sorrideva al pensiero che tutti conoscessero com’era andata, perché lui era il figlio di Knut. E Knut vestiva un abito da capitano avuto in modo da esserne orgogliosi.
Così aveva aspettato che le sue braccia fossero abbastanza lunghe e le guance un minimo irsute per entrare nel bar dei pescatori con la testa alta.
Ma quando svelò quella storia alla cameriera dagli occhi verdi e i capelli di polpo, sua innamorata che non vedeva l’ora di approcciare, tutto mutò.
“Quanto sei ingenuo! Qua tutti conoscono chi era veramente tuo padre… Solo tu ne conosci un’altra versione. Falsa come le promesse d’amore”. E la birra, battuta malamente sul tavolo, fece un’onda che andò a spegnersi sulla lana delle maniche.
Lo stupore misto allo sconforto fu invaso da un uomo che ogni tanto incrociava al porto. “Senti, io lo conoscevo bene il tuo babbo. Ho ascoltato cosa lei ti ha detto. Beh…”. E gli raccontò com’era andata realmente la vicenda.
La pancia del giovane cominciò a stringersi, aggrovigliarsi. Ora non era più solo delusione e sorpresa ma dolore, rabbia e odio.
“Lo so, tutto questo fa male. Puoi maledire tuo padre, tua madre, la cameriera, me, la povertà, la fame e cosa costringe a fare…”. Poi venne quell’”oppure”.
Guardava fisso il suo primo boccale di birra, lo strinse con la volontà di frantumarlo in mille pezzi. “Oppure puoi fregartene di quello che pensa la gente e indossare con orgoglio la verità. È così che si diventa capitani, fidati! E te lo dice uno che non ne ha mai avuto il coraggio. Forza ragazzo!”.
E il gallese dalla barba rossa, dandogli una pacca sulla spalla, se ne andò.

Racconto di Paolo Negri

È arrivata la primavera

Dovevamo festeggiare la nuova stagione, e nella nostra Vetrina da leggere tutti i racconti omaggiavano magnolie e fiori di pesco, e qualche autore non s’era trattenuto dall’associare il risveglio della natura a quello dell’anima, bah… cose del genere capitano nelle migliori famiglie. Occorreva comunque tirar su i soldi, i politici non ci sentivano, e non so se avete mai notato le loro orecchie, uno fa l’assessore, e un altro è consigliere, e un altro è tanto avanti e quotato nel partito che vuol diventare parlamentare, e glielo auguriamo di cuore, se questo è il suo desiderio speriamo per lui, purché non lo faccia per noi… e le loro orecchie sono grandi, fa parte dei requisiti, grossi padiglioni per ascoltare i cittadini, ma se guardate dentro il timpano non c’è, non sentono e tengono viva la frase convenzionale per cui quello che entra da una parte dall’altra esce, è un tunnel unico, da orecchio a orecchio, le parole scorrono via gocce su marmo… e non c’è problema, tutti abbiamo dei limiti, ma loro non lo ammettono e quando gli fai una domanda rispondono sì, dicono sempre sì, non gli costa niente, e infatti non hanno nemmeno sentito… e poi un’altra categoria che ci poteva aiutare era quella dei commercianti, ma chiedere moneta a un commerciante il minimo che può capitare è che risponda… e io che ci guadagno? E dobbiamo volergli bene, e come si fa a non amarli, hanno bisogno più di altri, e diamogli una mano… non conoscono la bellezza dell’azione gratuita.… però nella cittadina dove il tempo si è fermato i commercianti non sono così, sono speciali e ti offrono le loro vetrine, e noi per la festa di primavera le abbiamo riempite di magnolie e fiori di pesco, e poi adesso si è aggiunto Martin Stigol, lui fa animazione nelle strade, non è di queste parti, però ha capito che il suo compito è qui, e non è un missionario, è solo uno che si commuove per il sorriso di un bambino, e questi due elementi messi insieme sono il motivo per cui anche quest’anno nelle vie del centro arriverà la primavera. Martin si prepara, e bruceremo il vecchio, la natura rifiorirà, e tutti lo sanno, politici e commercianti, tutti sanno che una festa insieme vale più dei soldi. C’est la vie.

Racconto di Abramo Vane, in occasione del venticinquesimo della Vetrina da Leggere di via Cavallotti.

Il mandala 

Se fossero tutti come Barbara & Michele, la nostra Vetrina da leggere già volerebbe, purtroppo nella cittadina dove il tempo si è fermato c’è gente piena di grana che a tirar fuori cento euro sta male, sta proprio male fisicamente, e allora che ci puoi fare, dici forza e coraggio e applichi la politica dei piccoli passi, e se tutto dovesse andare a ramengo, ed è più probabile questo che non la realizzazione del sogno, resterebbero l’essenza dell’azione e il fascino di averci provato… ma non divaghiamo, sapete che hanno fatto l’altro giorno i due soprannominati? Hanno chiamato nel loro negozio di mobili orientali alcuni monaci tibetani a realizzare un mandala. Io sono arrivato alla sera e mi dispiace di non aver seguito tutto l’avvenimento anche se non è stato difficile ricostruirlo. Dalla mattina i monaci seduti attorno a una tela avevano aspirato per tutto il giorno granelli di sabbia con un piccolo cono da alcuni mucchietti che servivano per riempire e costruire il mandala, ce n’erano di rossi, gialli, verdi, neri, tutti i colori, e questi granellini, risucchiati con pazienza infinita, uno alla volta, erano scivolati lungo la spirale attorcigliata del cono per andare a collocarsi, secondo il colore, nello spazio prestabilito, e alla sera il mandala era terminato, una serie di cerchi e figure geometriche formavano un mosaico, e tutti dicevano che bello che bello, e così si giunse alla benedizione dell’opera, e parole cantilenate, incomprensibili per noi che però ne percepivamo la profondità, accompagnarono una cerimonia semplice, e alla fine la sabbia che componeva l’opera d’arte fu raccolta al centro del mandala, e in pochi secondi svanì quella figura che era costata il lavoro di una giornata, i monaci ridevano soddisfatti, e ne prese forma un’altra, come se da una pittura figurativa si fosse passati a una astratta, e io mi ricordai a proposito la lezione del pittore Gianluigi Sommaruga, passato dal figurativo all’astratto, e però nemmeno quel disegno rimase e i granelli di sabbia furono distribuiti in bicchierini fra i presenti, e mi sembra che a tutto questo non occorrano commenti. Noi cercavamo di imitare con i nostri sorrisi la serenità che traspariva dai visi di quei monaci, ma ahimè non ci riuscivamo, e Michele si avvicinò e sottovoce disse pazienza, ragazzi, avremo un’altra vita per riprovarci.

Racconto di Abramo Vane, in occasione del venticinquesimo della Vetrina da Leggere di via Cavallotti.

 

Cinema all’aperto

E sant’Antonio aveva fatto la grazia, Monica aveva acceso candele in tutto il negozio, e così quello non era più un negozio di abiti femminili ma un santuario per la Madonna, e i vestiti erano ancora più belli, Monica ci sapeva fare, nel suo lavoro era imbattibile, e quelle candele brillavano e annunciavano la serata che la nostra cittadina voleva vivere in modo speciale come se lì il tempo si sarebbe fermato… e il giornale radio aveva annunciato temporali serali, ma quelli delle previsioni guardavano il giorno sul calendario e non il nome che ci sta vicino, non si erano accorti che era Sant’Antonio e non sapevano che Monica aveva acceso candele in tutto il suo negozio di abiti… e così avevamo chiuso la via dove passavano le auto e tirato in mezzo uno schermo cinematografico, e proiettammo un film muto di Charlot, avevamo messo giù le sedie, e qualcuno se l’era portata da casa per non restare in piedi, un pianista seguiva il film e commentava dal vivo, e all’arte del cinema aggiungeva la sua, e la musica l’avevano fatta prima anche due ragazze che avevano suonato all’ora dell’aperitivo al bar del Cavedio, e ci fu anche il teatro, Martin e la sua troupe andavano in giro sui trampoli vestiti da Charlot, e siccome il film era un film muto non parlavano e si esprimevano con cartelli scritti come nelle comiche, e un passante che voleva dire una cosa capì che quello era l’unico sistema per comunicare e aveva scritto anche lui un cartello, e in attesa del film Samantha aveva preparato la paella e Fabrizio la sangria, ma Laura preferiva la birra e seduta al tavolino del bar la trangugiava senza bicchiere, direttamente dalla bottiglia, perché quello era l’unico modo diceva, e lei aveva un passato da dark anche se a guardarla non sembrava, e quando iniziò la proiezione il Giulio Rossini di Film Studio tirò due accidenti a quelli del Comune che non avevano spento il lampione in mezzo alla strada, ma nemmeno quell’inettitudine poteva ormai rovinare la magia, e vedere Martin e i suoi amici vestiti da clown, e poi il film di Charlot intitolato Il Circo, e sentire le ragazze con violino e chitarra e quel fenomenale pianista sotto lo schermo, e tutto questo in un’unica serata dove musica, cinema e teatro camminarono insieme come amici d’infanzia, fu indimenticabile, e per ricordare già bastava quella visione, la strada chiusa al traffico, e dietro alle persone sedute sulle sedie il tempo che si era fermato a guardare.

Racconto di Abramo Vane, in occasione del venticinquesimo della Vetrina da Leggere di via Cavallotti.

La Vetrina da Leggere

Me lo hanno chiesto in tanti, e adesso vi racconto la storia, vi racconto come nacque l’idea della Vetrina da leggere. Nella via c’era un negozio da affittare e allora chiesi al tizio dell’immobiliare se nel frattempo potevo mettere su quella vetrina vuota un foglio con un racconto, e così, quando mi diede il permesso, ne appesi due. Uno era L’uomo che scriveva nel vento, racconto in qualche modo emblematico. Lo avevo scritto per una nascente rivista letteraria mentre ero fermo al semaforo di via San Francesco, l’altro si intitolava Charles è morto, ed era di un ragazzotto di vent’anni. Non mi aspettavo niente. Dalla nostra città, che non sto a dirvi come si chiama, ma che per comodità da ora in poi chiamerò La cittadina dove il tempo si è fermato, non bisogna mai aspettarsi niente, salvo che vengano i vigili a vedere se sei in regola con l’attività oppure che uno ti denunci perché lo hai diffamato con un racconto di fantasia, come già mi è capitato. Era il primo anno che abitavo in quella via e me ne stavo pomeriggi interi seduto su una sedia del bar di fronte, e da lì vedevo la vetrina in questione e non mi pareva vero, ma c’era della gente attratta da quei due pezzi di carta messi su con lo scotch. Si fermavano e leggevano fino all’ultima riga. Incredibile, e chi abita La cittadina dove il tempo si è fermato sa perché dico incredibile. Se non parli di denaro qui è difficile comunicare. Qualcuno mi telefonò per acquistare i racconti e un paio di lettori, uomini, volevano conoscere Anna Bentivoglio, che era lo pseudonimo con il quale avevo firmato il mio racconto. E così chiesi a Ziorani di farmi la critica di tutti i film in città, e a quella cresta di gallo del Guglielmo di portarmi una tavola a fumetti, e poi a una ragazza del liceo di darmi una delle sue poesie, alla mia amica Rita qualcuna delle sue meravigliose fotografie, e fu quella la prima vetrina ufficiale. Era il 2 febbraio, in quel giorno era nato Jimmy Joyce, ma non l’avevo fatto apposta, la coincidenza mi venne in mente dopo. C’era già una redazione, e sembrava un giornale vero. Sei mesi dopo i commercianti della via accettarono di esporre nelle loro vetrine i nostri prodotti. Incredibile. Se l’avessi chiesto a uno del Corso mi avrebbe squarciato in due con lo sguardo. Qui era possibile, e il 21 ottobre inaugurammo il progetto sulla via. Vennero anche i politici e dissero molte parole, e se avessero realizzato una sola virgola di quello che promisero li avremmo votati fin tanto che campavano. Ma loro, appunto, erano politici, e noi volevamo solo ridere.  

Racconto di Abramo Vane, in occasione del venticinquesimo della Vetrina da Leggere.


Ottobre rosso

L’inaugurazione della Vetrina da Leggere qualcuno di noi ebbe l’idea di chiamarla Ottobre Rosso, e così ogni negozio della via esponeva un racconto illustrato, un’energia passava da un esercizio all’altro e le indecisioni venivano travolte dall’entusiasmo di quelli che ne erano affascinati. Tutti i contenuti erano di colore rosso, roba del tipo La mia vita di colore rosso, Semaforo rosso, Filastrocca rossa, Rosso per sempre, Rojo imposible amor… e i politici di destra per via di quel colore non ci salutarono, ma non è che con quelli di sinistra le cose andarono meglio, uno passò di lì con aria da saputello e capendo che la politica non c’entrava tirò fuori dalla tasca un bollino e l’appiccicò su una colonna dei portici, e da quel giorno fummo bollati, eravamo dei qualunquisti, non degni di giacere sotto la rossa bandiera, la cultura apparteneva a loro… e insomma non eravamo messi tanto bene e pensavamo che era stata un’idea del cavolo chiamare quella festa Ottobre Rosso, e se non fosse per quelli che collegarono il rosso alla vendemmia, non ce la saremmo cavata, e così fummo salvati da una massa di avvinazzati che accorsero con il bicchiere in mano, e noi giù a versare e a brindare a Ottobre Rosso, e musica e canti svelarono il nostro credo, che era quello di stare insieme attorno a quelle parole esposte, e commentarle, dire la nostra… e già a quei tempi io correvo dietro a un mondo che non è questo, non mi perdevo certo a combattere quelli che allora come adesso decidono per me. Quando penso all’illusione nella quale siamo immersi, il mio riferimento sono le preghiere delle suore di clausura che contano più del potere del presidente degli Stati Uniti… Beh, comunque, fu una grande giornata, mi costò una cifra, e fra tutte le persone impegnate nell’organizzazione io ero il più povero in canna, ma in realtà non ero così povero da non permettermi quello che mi concedevo, e alla sera la festa non si era ancora spenta del tutto che ero salito su di sopra, in sede, e lì trovai gli amici ad aspettarmi, e tutti avevano un episodio da riferire, e mentre giù in strada sentivamo le voci gioiose della gente, un ultimo brindisi fra di noi, alla salute di Ottobre Rosso.

Racconto di Abramo Vane, in occasione del venticinquesimo della Vetrina da Leggere.


Artisti in strada (Una rivoluzione silenziosa)

Ed era andata così, che la nostra bella stradina di giorno era un cimitero, non ci passava 

un cane come si dice, tranne quello al guinzaglio che faceva pipì davanti al negozio di Monica, e per dare un’anima a quei muri un pomeriggio invitammo i ragazzi del liceo artistico… e una ragazza faceva ritratti, altre tre la ceramica colorata, e c’era un ragazzo formidabile che truccava e creava effetti speciali sulla pelle e così dopo mezz’ora tutti i bambini erano in giro con ferite sulle braccia, guanciotte tagliate, occhi sanguinanti, e poi c’erano quelli che spruzzavano i murales, quelli del teatrino con le marionette, e uno suonava il flauto, e c’era anche un complessino jazz e un ragazzo ne dipingeva la musica su tela, altri due in un angolo in fondo battevano il tamburo, e una ragazza vestita da pagliaccio distribuiva palloncini e un’altra ruotava i colori della primavera come un giocoliere, un professore di fotografia con i suoi allievi immortalava gli avvenimenti, e una cosa davvero sorprendente è che tutti, ma proprio tutti, erano bravissimi, sembrava che avessero iniziato a sei anni a fare quelle cose, e la vita scorreva nella nostra stradina, qualcuno stava chiuso nel suo negozietto e altri serravano le finestre di casa, ma la vita scorreva, e un bimbetto si era fatto dare un pezzo di creta e si era appartato in concentrazione per creare subito anche lui quello che aveva visto dalle ragazze della ceramica, e i miei amici che avevano saputo della manifestazione mi dicevano che era una cosa fantastica, e la stradina era piena di artisti, tutti lo erano, e l’arte era un elisir sceso nel cuore della gente, e il poeta Silvio Raffo la percorreva e la inghirlandava con le sue battute, e il giornale lo avevano letto tutti, ma i signorini che in città pensano di essere loro la cultura non c’erano, e a una certa ora arrivarono quelli dell’aperitivo e avevano facce scure, e infatti quella sera l’auto non potevano metterla davanti al bar, e vicino a loro i ragazzi del jazz ci davano dentro, e si sorprendevano a vicenda che tutto riuscisse tanto bene, era una serata magica, immersi nella musica, e queste loro vibrazioni si percepivano lì attorno, e quelli dell’aperitivo rimanevano estranei, per loro non succedeva niente, e se passavano davanti alla ragazza dei ritratti non gettavano nemmeno un’occhiata, e non avevano una minima curiosità di come nasce un ritratto, di come lo spirito si muove in una matita, e tutto questo è davvero triste… e se qualcuno ha un’idea a proposito, che non sia quella di mettere a queste persone una dinamite nel sedere, per favore, per l’amore dell’umanità, la tiri fuori subito. 

Racconto di Abramo Vane, in occasione del venticinquesimo della Vetrina da Leggere.


In tre anni di conflitto Russia-Ucraina nessuno ha ricordato l’Esercito italiano che combatté in Ucraina nella Campagna di Russia 1941/43 della Seconda guerra mondiale.  

Quei bersaglieri e quegli alpini sul fronte russo, uomini costretti a diventare eroi per avere la speranza di tornare in patria, li ricordo con due racconti: IN PRIMA LINEA, una storia vera, documentata, e IL SOLDATO INUTILE, ispirata a fatti accaduti, con riflessioni sulla guerra. E sulla pace.

Ogni cosa è illuminata dal passato, e il compito della narrativa non è di sostituire la Storia, ma di renderla più comunicativa, in un totale rispetto degli accadimenti.

                                                                                       L’autore

IN PRIMA LINEA

Un bersagliere sul fronte russo

– Una storia vera –

Nessuno può spezzare l’anima, né il fuoco bruciarla; l’acqua non può bagnarla, né il vento seccarla.   (La Bhagavad-gita)

Prologo

I Morti e i Vivi

Questa storia la raccontano quelli che sono stati là, e poi sono tornati, sì, in qualche modo sono tornati, i superstiti della prima linea, ma la dovrebbero invece raccontare i morti, tutti quei morti che non hanno nemmeno una storia, e la storia vera, quella che i libri non riportano, la storia dei singoli, è rimasta in quei loro occhi spalancati… Noi li seppellivamo nella terra ghiacciata, quei morti, appena sotto, e altrimenti non era possibile, e a volte gli rompe­vamo le braccia rigide per farceli stare, e faceva così freddo che era come spaccare filoni di pane raffermo, qualche dito rimaneva fuori ed erano come fiori sulla tomba, gli unici a resistere, e tanti erano morti da eroi e la patria gli doveva almeno una medaglia alla memoria, ma là, davanti alla prima linea, non c’era mai un ufficiale a compilare il rapporto, e quando c’era anche lui era un morto… E così quella volta che avevamo cominciato un’azione di avanguardia e c’eravamo trovati quasi circon­dati, avevo imbracciato una mitragliatrice e il fuoco era violento, le pallottole venivano da ogni direzione e le sen­tivo proprio fischiare, indietreggiavo e sparavo anch’io scudi di pallottole e mi guardavo attorno e vedevo solo loro, i miei compagni morti, e loro vedevano me, e avevo tutti quegli scudi di pallottole a difendermi, e così ero ri­uscito a rientrare, e l’ufficiale mi aveva dato una medaglia, e me la consegnò lì sul campo, e il giorno dopo non me l’avrebbe più concessa perché anche lui era fra i morti. In prima linea ci sono rimasto tredici ininterrotti mesi, e quando l’ho lasciata di quelli che erano partiti con me, di quei ragazzi che avevano fatto il campo insieme, non ne era rimasto uno, tutti erano stati sostituiti, e così nel mio battaglione vedevo sempre facce nuove e poi mi ero ac­corto che di quel primo contingente di centottanta bersaglieri che componevano la prima compagnia non ne era rimasto nes­suno, erano morti o rimpatriati come feriti, e tanti non so neppure che fine avessero fatto, non erano più al fronte, e tutti erano stati sostituiti perché il soldato in prima linea viene sempre rimpiazzato, e dietro di lui ce ne sono altri sette che lo sostengono, che lavorano per lui, e quel sol­dato in prima linea non manca mai, cambia la faccia ma è sempre presente, e di quelle facce che avevano vent’anni ne avevo viste tante passare, la chiamavamo la giostra mortale, le facce colpite cadevano e ne ri­spuntavano altre… E come una freccia pungente e vele­nosa nella mente arrivava il pensiero che prima o poi qualcuno avrebbe preso il mio posto, e questo pensiero però io lo facevo correre via e tenevo la mente occupata con altro, e mi procuravo i fucili mitragliatori del nemico che funzio­navano meglio dei nostri, quelle straordinarie mitragliette che non si inceppavano mai, e cercavo il cibo sufficiente a un uomo che combatte ogni giorno, il tascapane a un morto non serve più a niente ma tiene in forza uno vivo, e quando ci sono quaranta sotto zero devi essere attrezzato, il congelamento parte dai piedi, e il nostro equipaggia­mento ai tedeschi faceva ridere, loro sì che erano preparati alla guerra e la volevano proprio fare, e se quel pensiero velenoso entrava nella mente di un soldato che non era pronto per la guerra allora nasceva la paura, e la paura in prima linea è una calamita, e tutte le pallottole sono lì, se uno ha paura è meglio che stia nelle retrovie, è meglio es­sere uno di quei sette soldati che stanno dietro, e se sei fortunato ti mangi i prosciutti e bevi acquavite per riscal­darti, ma in prima linea arrivano solo quei tozzi di pane fatti di paglia, e il vino è così annacquato che bisogna scioglierne i cubetti ghiacciati con i guanti e con il fiato, ma chi non è in prima linea fa un altro tipo di guerra, in prima linea non si trema per il freddo, non si trema per la paura, e chi lo fa è un uomo morto.