La torta di mirtilli

La torta di mirtilli

Se metto a fuoco il bosco di aceri più a sud, il ferro sbiadisce, indistinto, poi scompare.
Mi chiamo Jack London. Già, come lo scrittore. Vivevo a Maville in Ohio, ho trascorso lì gran parte della mia esistenza. Possedevo una casa, un cane, a cui ho avuto il buon senso di affibbiargli il nome di Prince, e una moglie, Vera. Abbiamo condiviso quasi trent’anni insieme, c’erano giorni buoni e, come è giusto che sia, giorni meno buoni. Questi ultimi li ricordo poco.
Mia moglie diceva che al mondo ci sono solo due modi per fare una torta ai mirtilli come si deve, il suo e quello degli altri. Non ho mai avuto cuore di dirglielo, ma la sua era immangiabile. Aggiungeva zenzero e peperoncino, in pratica il sapore di mirtillo spariva sepolto dai forti aromi delle due spezie.
Quella volta che sua cugina Cea di Fresno venne a trovarci, Vera si cimentò nella sua originale preparazione. Le gironzolavo intorno, consigliandole di andarci piano con gli ingredienti, che forse i suoi parenti avrebbero preferito qualcosa di più tradizionale, magari una cheesecake. Mi fulminò con lo sguardo. «Jack London!» Mi apostrofò. «Vai a farti un giro da Mobs, e non tornare prima delle cinque». E così feci, indossai il mio giaccone, il cappello e misi il guinzaglio al vecchio Prince.
Quando rincasai, Cea era già arrivata con suo marito. Cenammo, e fu una serata piacevole. Poi Vera si alzò, e con un’enfasi che non le riconoscevo, disse: «E ora la torta!»
Tornò con un vassoio, lo posò al centro del tavolo, e, con precisione chirurgica, tagliò sei fette. Le mise nei piattini da dolce e le servì. Io mangiai la mia porzione al solito modo: pezzi piuttosto grandi, masticazione quasi assente e ad ogni boccone un sorso cospicuo di birra. Potrei mangiare bocconcini di carne per il cane con quel sistema. Gli ospiti invece apprezzarono. Ne fui sollevato e felice.
Quando si ammalò, non me ne accorsi. Per me era sempre la solita Vera. Sì, ogni tanto si dimenticava dove metteva le cose, ma a quanti succede? Poi peggiorò. Come una giornata di luglio, soleggiata, qualche nuvola, un po’ di pioggia, prima lieve poi sempre più forte, gli scrosci e infine la grandine.
Trovai la lettera nell’armadietto del bagno, dietro la schiuma da barba. La data indicava due settimane prima. Iniziava con “Se mi ami”.
La notte del 2 marzo 2004 uccisi mia moglie con cento gocce di Gradol.
Il bosco di aceri è ancora lì. Ora di definito c’è il ferro rugginoso delle sbarre. Mi volto verso la porta di metallo. La foto di Vera mi osserva. Ancora le sue parole, “Non voltare le spalle alla vita”. Ci sto provando, ma è così difficile, amore mio.

di Gian Paolo Zoni, illustrazione di Mauro Speri

Il racconto del giorno feriale (dagli autori della nostra scuola di scrittura SCRIVERE IL CORTO)


IL CAVEDIO associazione culturale e sportiva dilettantistica APS ———————————————– segreteria1997@ilcavedio.org

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *