Debora è stesa sul tappetino del bagno, la dose dà i suoi primi, meravigliosi effetti. La volta celeste le gira attorno, c’è solo un puntino che non si muove, è Venere. E lei ripercorre la sequenza di eventi della giornata come in un sogno.
A mezzogiorno, con alcune colleghe, era andata al ristorante giapponese al posto della solita mensa. A un certo punto, lo sguardo di Jessica, la capo-reparto, fu catturato da qualcosa sopra la sua testa. Debora s’era girata di riflesso. Una donna dall’aspetto bellicoso la fissava. “Ho saputo che ti vedi con mio marito”, e la minacciò con tono sprezzante. Lei rimase di ghiaccio, e il gelo si propagò nel locale.
Al pomeriggio, finito il turno di lavoro, andò all’officina dove lavorava l’amante. Lo scorse di spalle chino sul motore di un’auto col cofano alzato. Lo chiamò più volte, senza risposta. Si avvicinò a lui. “Cosa succede?”. “Non possiamo più vederci, mia moglie ha letto i messaggi sul cellulare. Ora vattene, ho una consegna urgente”. Scenata di lei, lui impassibile: “Vai fuori dai piedi”.
Il pensiero di farsi consolare dalle amiche, che al ristorante giapponese l’avevano guardata con disappunto quando la furia se n’era andata, la nauseava.Telefonò invece a Giacomo, il suo vecchio pusher.“Ce l’hai?”, “Si”. Era pulita da un anno, ma aveva conservato il numero. Parcheggiò davanti al cancelletto scrostato del condominio fatiscente e si infilò nell’appartamento che l’uomo condivideva con altri spacciatori.“Dov’è?” chiese appena vide la sua ombra chiudergli la porta alle spalle.
“Prima i soldi”, replicò lui. “Tieni”. Prese la bustina e si chiuse in bagno. “Non qui, capito?”. Troppo tardi.
Un tonfo secco ora la risveglia dal suo trip, una retata. Una divisa nera le si accosta. “Signorina, mi sente?”, la scuote,“Signorina?”.
Una barella la porta fuori tra i colori del tramonto appena sfumato, intravede Venere, più grande e lucente del solito. Da quando è diventata “l’altra donna” si rivolge a lei come a una vecchia amica. Hanno lo stesso problema, lei in secondo piano rispetto alla moglie del suo amante e Venere dietro a Mercurio per distanza dal sole. Veglia su di lei con un sorriso benevolo, è immobile, in ascolto. Debora chiude gli occhi, adesso è serena.

Racconto di Olga Riva Rovaglio (www.ilcavedio.org), illustrazione di Silvia Gabardi: “Riflessi abbaglianti”, calcografia su zinco, 2007.

Il racconto del giorno feriale (dagli autori della nostra scuola di scrittura SCRIVERE IL CORTO)


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Quel sabato nella via c’era la solita marmaglia di turisti affamata di souvenir. Victor tirò su la saracinesca della bottega di antiquariato in Portobello Road. Da quando la moglie Elisabeth lo aveva lasciato, ogni azione era più pesante: aprire il negozio, portare fuori gli scaffali e riporvi la mercanzia. Aveva sempre dubbi sugli abbinamenti, “Cose da donne “ bofonchiava sotto la barba incolta. Lei non avrebbe sopportato quel look trasandato, ma ormai non c’era più e anche l’uomo ben rasato e curato se n’era andato con lei. Era tornato quello burbero e selvatico, quello che si metteva i vestiti del giorno prima. Aveva anche ripreso a fumare, perfino di notte, ogni volta che il pensiero di lei lo teneva sveglio.
Una parvenza di dignità l’aveva mantenuta, per Bess, sua figlia. Il musetto roseo illuminato dai dentini da latte aguzzi spuntò dall’uscio a cercarlo.
“Ciao papà!” la sua voce cristallina lo fece trasalire, mentre disponeva la targa vintage dei sigari cubani di fianco a quella del rum Havana Club. “Ciao Bessy, cosa ci fai qui? Non dovevi fare i compiti?”, la rimproverò, “sì, ma mi annoiavo, ti aiuto?”, suggerì lei, “non è necessario, vieni giù dopo, chiudo il negozio e ti porto in un posto speciale, ok?” Victor sfoggiò il suo sorriso migliore, e le dette un buffetto sulla testa ricciuta. Bess sparì mogia nel locale, e lui appese un modellino di Fairey Swordfish, vicino al triplano del Barone Rosso.
Arrivavano i primi clienti. Lui si fingeva impegnato, ma appena perdevano interesse, si fiondava da loro per illustrare gli ultimi arrivi e le offerte del giorno. Era tardi, e di Bess nemmeno l’ombra. Girò il cartello sulla la scritta “Closed”. Si diresse verso la porta dietro al bancone, e imboccò le scale che portavano al loro appartamento.
La bambina era ferma alla finestra, gli occhi puntati al cielo che imbruniva. Aspettava la prima stella, quella della mamma, come lui le aveva raccontato tante volte. “Eccola è lei, papà, ci sta guardando!” Victor la strinse dolcemente tra le braccia e le sussurrò: “Stasera andiamo sul London Eye (1) , così quando saremo in cima ci sembrerà di essere lì con lei e potremo quasi toccarla con un dito”.

(1) ruota panoramica di Londra situata sulla riva sud del Tamigi

di Olga Riva Rovaglio, illustrazione di Silvia Gabardi

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“Mancano le lamine di abete rosso”, la matita di Luigi si blocca a metà della conferma d’ordine. Il ragazzo delle consegne sospira “la tempesta Vaia ha spazzato via decine di ettari di bosco in Val di Fiemme. Ci vorranno settimane perché la legna arrivi”. Ma Luigi non lo ascolta più.
Izumi era entrata nella bottega il giorno prima. In città Luigi era noto per l’estrema cura dedicata a ogni strumento, paragonabile solo al suo carattere schivo. Era un uomo dal piglio deciso, in particolare quando l’estro creativo lo invadeva e una scintilla di pazzia gli balenava negli occhi. Trasalì nel vedere i tratti esotici e le labbra un po’ imbronciate della giovane. Dalla borsa di cuoio aveva sfilato alcuni spartiti e aveva eseguito l’Ave Maria di Schubert, con un suono trasparente, quasi liquido. Izumi gli aveva chiesto di realizzare un violino su misura per lei e si era proposta di partecipare per il laboratorio di Luigi al Concorso Triennale Internazionale degli Strumenti ad Arco “Antonio Stradivari”, l’Olimpiade della Liuteria. Luigi accettò, quel liquido si era fatto strada nella sua naturale diffidenza.
Data la scarsità di abete rosso,usato per i piani armonici, sceglie un legno più leggero, adatto a una ragazza esile come Izumi e studia antiche ricette di vernici. Solo due mesi e la competizione inizierà. Lavora duramente e, a una settimana dalla gara, l’opera è terminata.
Di Izumi, però, nessuna traccia. Dal loro primo incontro, non l’ha più rivista. La cerca al conservatorio, ma non risulta tra le iscritte. Prova allora nella biblioteca della scuola e consulta gli annuari dei diplomati. Ed ecco il suo il volto comparire tra le pagine consunte. Sotto la foto scorge incredulo l’anno dello scatto, 1978. Scopre poi che la ragazza era rimasta vittima di un incidente d’auto la notte precedente al concorso di quell’anno, a cui avrebbe dovuto partecipare.
La sera del concerto è arrivata, il salone si popola di abiti da sera scintillanti. Luigi ha un sussulto quando le note dell’Ave Maria di Schubert fendono la platea, e al posto della musicista ingaggiata all’ultimo, appare Izumi. La pelle candida, gli occhi socchiusi, la testa reclinata sulla mentoniera. Per tutta la durata della canzone lei è lì, dopo tanto tempo, avvolta dalle luci del palco. La sua voce danza nell’aria, libera, levigata in ogni dettaglio dalla lima di Luigi. Poi, l’ultimo suono si spegne, e nel locale riecheggia il tonfo del violino, privato del suo sostegno.

di Olga Riva Rovaglio

Il racconto del giorno feriale (dagli autori della nostra scuola di scrittura SCRIVERE IL CORTO)


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