Di Fabrizio Nigro

E alla fine quel giorno arrivò.

Anzi, quella sera arrivò. Dopo anni di sguardi, sorrisi, parole dette a metà, di desiderio vero, quel giorno arrivò. Pardon, quella sera.

Sarei dovuto passare a prenderla, ma non sapevo dove abitasse. Lei mi disse che delle luci bianche e rosa mi avrebbero indicato la via. Cazzo era vero.

Trasformatomi in re magio arrivai fin sotto casa sua. E lei era lì, ad aspettarmi in piedi, in tutta la sua bellezza. Salì in macchina assieme al suo profumo.

Ciao! – disse sorridendo.

Ciaaaaoo – balbettai in malo modo.

Sorrise di nuovo.

Durante la cena parlammo, parlammo un sacco. Ricordo che amava le passeggiate, i suoi cani, i suoi gatti, il rosso in ogni sua espressione, Parigi e l’alba sui suoi tetti, Caravaggio, Loutrec e le sue puttane, il cibo, quello buono, il vino che abbia da raccontare, il mare, i lego, i gesti spontanei, il cinema. Amava la verità. La sincerità. E io amavo ascoltarla. Le raccontai di me, della mia confusione.

Dopo cena mi invitò a salire da lei per un drink. Naturalmente accettai, ma le gambe iniziarono a tremarmi. Seduti sul divano, continuammo a bere e parlare, finché si fece tardi. Mi alzai per andarmene. Mi accompagnò alla porta.

Allora ciao… – sospirò.

Le presi il viso tra le mani e la baciai. Un bacio lungo mille anni. Un bacio caldo e morbido, che sapeva di casa.

Così finisce che facciamo l’amore – le dissi.

Fu lei a baciarmi questa volta.

Ci trascinammo in camera. Eravamo così eccitati che neanche una guerra mondiale avrebbe potuto fermarci. I vestiti volarono per tutta la stanza. Le nostre bocche non si staccavano più, le nostre mani perlustravano ogni centimetro dei nostri corpi ansimanti che aspettavano solo di unirsi. E… E invece niente. Niente, kaput, nisba…

Il mio migliore amico mi stava tradendo. La guerra era scoppiata e io stavo soccombendo.

Nonostante i generosi tentativi da parte degli alleati di risolvere la battaglia, il vigliacco continuava a guardare in basso. Rassegnati, continuammo a scambiarci qualche bacio e qualche carezza sotto le coperte, inveendo entrambi contro il franco tiratore.

Poi, nel silenzio delle macerie, mi rivestii. In silenzio mi accompagnò alla porta per la seconda volta.

Magari ci riproviamo… – dissi.

Certo… – rispose non riuscendo a trattenere una lacrima colma di delusione.

Chiuse la porta.

Arrivato in strada vidi le lucine di Natale che mi avevano guidato fino a lei spegnersi a una a una, lentamente, come la coda di una cometa che si allontana.

Salii in macchina certo di non rivederla mai più.

Fabrizio Nigro nasce a Firenze nel 1976. Laureato in Storia del Teatro e dello Spettacolo, dopo una prima esperienza come regista e videomaker, si occupa di organizzazione e promozione di eventi, concerti, spettacoli e progetti culturali.

Selezione di racconti da XI Concorso “Il Corto letterario e l’illustrazione”, NARRATIVA (Scrivere il corto) RACCONTI D’AMORE ( Sezione dedicata a Maniglio Botti)

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di Antonella Dell’Aquila

Parcheggio e scendo dall’auto. Oggi ho messo i tacchi, non lo faccio quasi mai, e mentre cammino sento forte il tac tac delle mie scarpe.

Cammino da sola e mi colpisce come un pugno nello stomaco quella solitudine, intorno a me le luminarie dell’imminente Natale, tanta gente in strada, tante coppie che si tengono per mano o sottobraccio.

Ricordo il suono dei miei passi accanto ai tuoi, ricordo il mio braccio sotto il tuo o il tuo sulla mia spalla, i miei tacchi davano un ritmo al suono felpato delle tue scarpe, la vetrina davanti alla quale mi fermavo e tu sorridendo mi portavi via “sono oggetti senza valore, nella vita le cose importanti sono altre”, eccola la caffetteria dove ci fermavamo a bere il mio caffè con panna, tu un decaffeinato e una fetta di dolce.

Adesso cammino fra la gente e sento solo il rimbombare dei miei passi la tua assenza è tangibile accanto a me, la sento. È la bestia nera che ho evitato per tutta la mia vita e che ora mi cammina accanto, manca il fiato e la luce della vita si è abbassata.

Sono attimi che ti cadono addosso con violenza accanto a ricordi che si fanno sempre più dolorosi e flash del futuro che ti attende e fatichi ad accettare.

Fai la donna forte ma forte non sei e te ne accorgi quando meno te lo aspetti.

È successo durante il colloquio con un medico per un prericovero quando ti sei sentita chiedere il cellulare di un familiare e non hai saputo rispondere e poi al risveglio dall’anestesia dentro una camera di ospedale quando non hai trovato quel volto che malgrado tutto continui ad amare anche se ormai è un amore arrabbiato e deprivato.

È un attimo e il cuore si stringe, pericolose lacrime si affacciano, tenti di tenerle dentro di te come quel dolore sordo che si ostina a vivere nella tua parte più nascosta malgrado tutti i bei ragionamenti raziocinanti che ti fai.

Come lo spieghi questo a chi non lo prova? Come lo spieghi a quell’amica che mossa da un affetto sincero ti chiama quasi tutte le sere e ti dice che devi reagire e fartene una ragione, ti propone corsi di ballo, escursioni con amici nuovi che devi conoscere per crearti quella rete amicale che si è sfaldata nella tua nuova situazione di donna separata?? Non può capirlo per sua fortuna perché quando ti trovi senza la coperta di un amore che ti ha avvolta per tutta la vita hai solo freddo e niente riesce a scongelare quel cuore malato.

Quando si ammala il corpo riusciamo a comprendere la gravità del male ma quando si ammala l’anima non è tutto così chiaro.

Ti ritrovi a fissare il vuoto, ad ascoltare il silenzio a vedere la vita e a non sentirne i sapori.

Come lo spieghi tutto questo a chi non può capire il male che fa quel tac tac sulla strada?

Tac tac, tac tac…

Antonella Dell’Aquila nasce a Siracusa nel 1959 e lega con fili indissolubili la sua vita al mare e alla sua terra. Un matrimonio due figli e un lavoro che ama. Insegna Matematica ma l’amore per la razionalità non ha mai coperto del tutto la propria voglia di raccontarsi.

Selezione di racconti da XI Concorso “Il Corto letterario e l’illustrazione”, NARRATIVA (Scrivere il corto) RACCONTI D’AMORE ( Sezione dedicata a Maniglio Botti)

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Di Massimiliano Falavigna

Di nuovo questa farsa. Di nuovo qui, in compagnia dello zerbino rosso welcome e del campanello retroilluminato azzurro. Il tuo nome in corsivo. Il dito sospeso interdetto lo indica, prossimo a innescare un tentativo o a battere in ritirata.

Nella mia testa confronto il punteggio: scorrettezze, ragioni, punti di vista. Ogni volta mi sembra di essere in vantaggio, ogni volta ribalti il risultato. Per il momento chiamiamola “sostanziale parità”.

Già ti sento, non sei d’accordo.

Rieccomi qui, sul pianerottolo, a fissare il pacco Amazon sull’uscio del vicino, chiedendomi cosa contenga. Lo so, sto divagando. L’ingrato compito mi attende.

Oltre la porta, ti immagino impegnata negli stessi calcoli, riesumando questioni sepolte. Hai versato qualche lacrima anche tu, l’ultima volta. Qualcosa vorrà pur dire, altrimenti non sarei qui. Cosa se ne farà il tuo vicino di un pelapatate elettrico? L’etichetta inappropriata, sai… Che ne è della privacy? La pigrizia del nostro tempo sarà la nostra estinzione, l’ho sempre detto.

Certo, certo, divago apposta, sì, per rimandare il consueto cedimento. Dovrei già essere in strada in cerca di fortuna, ma è qui che mi materializzo sempre. È la massa di ricordi comuni che ci trasciniamo appresso a tenerci ancorati l’uno all’altra. È quando mi hai insegnato ad andare sullo snowboard e le botte che ho preso per farti felice. È la volta che ti ho fatta ridere con quella battuta sui cervi, così tanto che a momenti soffocavi. È il nostro primo concerto insieme, e tutti gli altri che sono seguiti. Le nostre serate, le nostre giornate, le pizze la domenica sera. I giri all’Ikea a sprecare pomeriggi nella ressa. La nostra banale normalità che ogni tanto inciampa nelle insormontabili questioni di principio.

La desolante ciclicità delle scuse impone l’eterno ritorno allo zerbino rosso welcome.

No, non è quello. Sono la tua assenza e il tuo vuoto ereditario a strozzarmi ogni singola volta.

Il tuo vicino ritira il pacco e mi guarda come per dire “fatti forza, amico mio”. Solidarietà maschile imperitura, l’unione che fa la forza.

Il dito avanza. Il mondo riparte. Il gallo ha cantato tre volte. L’auto-tradimento di quando ho detto “mai più” si rinnova. La luce del campanello ha un calo di tensione, dividendo la corrente col suono. Mèndico tempi di pace su uno zerbino rosso welcome, ecco tutto. Io e l’oggetto su cui poggiano le mie scarpe siamo accomunati nello spirito. E di nuovo incorriamo in questa farsa, che il vento fresco perdono stempera.

Nemmeno stavolta, era niente di serio.

E il tuo pianto conciliante ci è testimone.

Massimiliano Falavigna è nato nel 1985 a Isola della Scala, in provincia di Verona, dove tuttora vive. Laureato in lettere, è oggi un produttore di riso con il proprio marchio e al contempo coltiva la passione per la scrittura.

Selezione di racconti da XI Concorso “Il Corto letterario e l’illustrazione”, NARRATIVA (Scrivere il corto) RACCONTI D’AMORE ( Sezione dedicata a Maniglio Botti)

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Di Ezio Boero

Iniziò per caso, l’amore. E poi furono lacrime e nostalgia. Una manciata di minuti più tardi e avrei vissuto un’altra vita. Invece sono di nuovo qui, alla fermata del tram. Lascio passare una corsa dopo l’altra. Appoggiato alla palina. Aspettando di vedere lei. Come la prima volta. In quel tempo passato, i pensieri stavano tornando all’ascensore aperto sul pianerottolo.

Di fronte a me, la studentessa colle efelidi che viveva in mansarda.

Sali? – chiese lei, la voce melodiosa di un usignolo –   Sali o no? Sveglia! – Quasi le stesse parole. Ma quale differenza d’intonazione, quella del barbuto tranviere! Scontrosa, come la porta che richiuse sul mio viso attonito.

Fu allora che la donna emerse tra l’aere impregnato di emissioni nocive. Imperiosa come un cartello di divieto d’accesso, slanciata come un’onda di tsunami, affascinante come una diva del cinema muto.

Ma parlò! S’avvicinò come se m’avesse individuato con una ricerca di mercato. Mi fissò coi suoi occhi color testa di moro e chiese:

Fumi? –

Mentii spudoratamente: – Sì, due pacchetti –  

Dammene uno! –

Sarei molto felice di esaudirla ma per sfortuna le ho consumate tutte. È stata una giornata intensa –

Amico, caccia fuori una cicca o ti spacco la faccia!

I nostri rapporti parevano ora esser più intimi. La conversazione aveva raggiunto un che di sinceramente ruvido. Ne fui lusingato. – Ti do 5 euro. Così puoi comprartele –

Mi prendi per il culo? Allora dammi il portafoglio, faccia di trota. Verrò a sapere dove abiti. Se non vuoi grane, dimmi il PIN della tua carta bancaria! –

Ormai ero in contatto ravvicinato. Il tacco della sua scarpa mi premeva l’unghia dell’alluce. Quella che doleva ancora dal torneo di calcetto, quando un energumeno m’aveva pestato il piede come fosse un mozzicone esausto.

Declamai le cinque cifre, attratto dallo sguardo magnetico di lei, mentre dalle sue labbra nervose uscivano denti aguzzi che mordevano il lobo del mio orecchio destro.

Un’anziana claudicante ci guardò sorridendo: – Che bella la gioventù! – Ricordando il fidanzato, principe delle balere, disperso in guerra nella steppa russa.

Grazie, amore. E non ti venga in mente di denunciarmi – furono le sue ultime parole.

Una lacrima sofferente mi spuntò sul viso. Che donna! Capii che non l’avrei mai dimenticata! Me la ricordarono i prelevamenti dal conto bancario dei primi successivi giorni e le sue telefonate notturne, così colme di lusinghe minacciose che provai un’acuta nostalgia quando non giunsero più.

Torno a frequentare quella fermata del tram. Tutti i giorni. La speranza di rivederla non morirà mai!

Selezione di racconti da XI Concorso “Il Corto letterario e l’illustrazione”, NARRATIVA (Scrivere il corto) RACCONTI D’AMORE ( Sezione dedicata a Maniglio Botti)

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di Kenji Albani

   1996

   “Allah o’akbar”.

   “Allah o’akbar”.

   “Allah o’akbar”.

Fu tutto un ripetersi di quelle sante parole. Jamal ci credeva. O quasi…

Corse al MiG, indossò il casco con la maschera per l’ossigeno, saltò dentro l’abitacolo. Furono i serventi di terra a chiudere il cupolino, il meccanismo automatico non funzionava più. Da quando il regime di Najibullah era finito, dalla Russia non arrivavano più pezzi di ricambio. E figurarsi: i russi dovevano pensare alla Cecenia, non a sostenere il regime talebano in Afghanistan.

Jamal decollò. Lui era il Solitario, l’ultimo pilota militare del paese.

Si sollevò di decine di metri fino a centinaia di metri sopra le montagne tanto da perforare le nuvole. Lasciò Kabul e si diresse verso Mazar – i – Sharif.

Ci arrivò in dieci minuti, trovò tutto molto noioso, si era augurato un po’ di difficoltà, ma purtroppo lui era l’ultimo pilota in Afghanistan. Almeno militare. Neppure l’Alleanza del Nord disponeva di apparecchi d’attacco, figurarsi da ricognizione o da trasporto.

Jamal incominciò il bombardamento della città ribelle. Vide più in basso dei fiori di fuoco diventare pennacchi di fumo, si divertì a pensare quanto fosse divertente bombardare e uccidere i nemici dell’Islam.

Anche se poi, negli ultimi tempi, un tarlo gli rodeva la mente. Non aveva apprezzato che la sorella del suo migliore amico, Nadia, fosse stata lapidata a morte nello stadio di Kabul. Lui aveva assistito alla scena: durante una partita di calcio i giocatori in tute a maniche e pantaloni lunghi e le barbe incolte che si erano ritirati negli spogliatoi per dissetarsi visto il caldo, allora erano arrivati degli uomini che avevano scavato una buca per poi infilarci una donna in burqa. Avevano richiuso la buca lasciandola scoperta dalla vita in su, intrappolata. Davanti alla condannata si erano parati dei talebani, sei in tutto, e come un plotone d’esecuzione avevano preso le pietre caricate su un pick-up entrato in campo.

Un mullah aveva detto al megafono: Nadia Nizamuddin ha commesso adulterio. Ecco la sua punizione!

Non è vero, mi sono solo tolta il burqa nel cortile di casa…

Non aveva potuto concludere che la prima pietra l’aveva colpita. Era stato il mullah a lanciarla.

Il plotone d’esecuzione aveva iniziato a scagliare i sassi contro la poveretta.

A Jamal era venuto da vomitare. Le voleva bene, era una brava ragazza.

Adesso che stava bombardando Mazar – i – Sharif, prese la sua decisione perché quella era una storia vera che non gli dava pace. “Meglio fuggire in Uzbekistan”.

Capì che i talebani non si sarebbero mai più serviti del Solitario.

Kenji Albani è nato a Varese il 13 novembre 1990 (il suo nome è giapponese, ma lui è italiano). Nella vita fa l’articolista, pubblica con Delos Digital ed è arrivato in finale alla 6a edizione del Premio Altieri Segretissimo.

Selezione di racconti da XI Concorso “Il Corto letterario e l’illustrazione”, NARRATIVA (Scrivere il corto) RACCONTI DI GUERRA E DI PACE ( Sezione dedicata a Maniglio Botti)

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di Gianluca Fiore

Meno male, è giovedì. Oggi dovrebbe arrivare la coppietta di liceali, escono e vengono sempre a mettersi qui sotto, pioggia o sole. Ah, eccoli. Che teneroni…mano nella mano, si parlano fitto fitto, come se non si vedessero da un’eternità. Beh, ve lo devo confessare. Mi sento un po’ chioccia con questi due innamoratini qui sotto. È uno dei momenti più belli della settimana. Poi certo, c’è anche il weekend ma è una carica continua di bambini urlanti, sì, soprattutto quei maschietti votati all’arrampicata a tutti i costi, che barba…ce lo diciamo spesso tra di noi: meglio i giorni infrasettimanali, quando c’è poca gente e ti puoi godere la vicinanza delle persone.

Non credete che riusciamo a dircelo? Eh già, perché voi vi ritenete i soli bravi ed in grado di poter comunicare, vero? Ma io posso attraversare l’intero parco per farmi sentire dalle altre, sapete? Abbiamo tutto un sistema di comunicazione che a voi, bipedi inventori di inutilità, lascerebbe di stucco. A voi la parola – a cosa poi vi servirà mai, dato che spesso e volentieri neanche vi capite – a noi gli impulsi elettrochimici, che non sbagliano di una virgola. È così che la Quercia all’ingresso del parco mi dice chi sta arrivando. Lontano? Certo, l’ingresso è lontano, ma noi siamo tante! La parola d’ordine è inclusione, e anche aiuto. E pure se tra me e la Quercia all’ingresso c’è di mezzo l’Ontano, il Carpino, Il Leccio, le aiuole di Sassifraga, il gruppo di Betulle e il Faggio pendulo, beh, insieme facciamo la differenza.  Lo avevo letto nel giornale del vecchietto che viene qui sotto ogni venerdì: una roba tipo il telefono senza fili. In realtà, del telefono ne ho appena sentito parlare, ma ve lo posso garantire: tra noi ci capiamo benissimo.

E poi lo sapete che possiamo anche godere della forza reciproca? Ora vi stupisco: qualche giorno fa è arrivato il senza tetto che ogni lunedì passa di qui per farsi un pisolino. Beh, non è arrivata la solita nuvola rompipalle a dar fastidio? Ci siamo detti ma guarda che insolente, ora ci pensiamo noi. Sarebbe sufficiente un po’ di sforzo per piegare le nostre chiome e proteggere il dormiglione. Oh: detto, fatto. Mi è arrivata un’ondata di energia dalle altre e questo mi ha aiutato a piegare i rami fino a proteggerlo. Forte, eh? E pensare che tutti ci credono senza anima, esseri immobili con una vita senza pensieri, senza sforzi, senza empatia. Se solo ci si fermasse un po’ più a ragionare…

Beh ora scusate, a proposito di esseri vegetali ora ho un mucchio di cose da fare. Sto giusto aspettando al varco il gruppo di giovani scoiattoli che da qualche tempo ha preso casa qui nel parco. Corrono a tutte le ore, e quando c’è da passare da una all’altra di noi non chiedono neanche se si può. E va bene un po’ di sfrontatezza giovanile, ma insomma chiedere permesso mi sembra il minimo, non trovate? Ora li fermo e gliene dico quattro.

E poi? E poi niente, continuo la mia intensa giornata di relazioni. Mica siamo come voi, che a un certo punto vi spegnete senza un motivo apparente. Beh, arrivederci. E tornate a trovarmi, eh, tanto…chi si muove?

Gianluca Fiore. Uno dei pochissimi romani che ha deciso di fuggire dalla Capitale, che oramai ritiene un luogo invivibile, per contaminare il Nord con la sua romanità. Amante, tra le tante cose, della bella scrittura: mezzo per esplorarsi, conoscersi e riconoscersi.

Selezione di racconti da XI Concorso “Il Corto letterario e l’illustrazione”, NARRATIVA (Scrivere il corto) ALBERI DAL MONDO ( Sezione dedicata a Maniglio Botti)

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di Agnese Ilaria Telloni

C’era una volta una margherita, in un grande prato verde. Era spuntata un giorno di primavera, di mattina presto, dopo uno scroscio improvviso.

Le era capitato di nascere sul bordo di un campo di calcio di provincia. In quel prato si sentiva una delle tante, e mai nessuno che si accorgesse di lei. Se non ci fosse stata, di sicuro non avrebbe fatto differenza.

Lì ogni domenica tante scarpette colorate le passavano vicino. Quando arrivavano veloci, con tutta la loro foga, facevano tremare la sua corolla, e ogni volta pregava di non essere travolta. Sentiva un rumore sordo quando colpivano il pallone o si scontravano fra loro. Le grida che riempivano l’aria le mettevano paura, ma erano sempre meglio del silenzio che la avvolgeva negli altri giorni della settimana. Di domenica non pensava e tra tutti quei colori, quelle urla, quell’energia, la vita le sembrava dolce.

Un giorno qualsiasi se ne stava assopita sotto il sole tiepido, quando sentì dei passi leggeri. Due scarpe bianche, anzi, quattro.

Non correvano, non facevano rumore. Il loro incedere sembrava una danza.

Si muovevano lente e in certi momenti si fermavano, vicine vicine, a far cosa non riusciva a vederlo. Due di quelle scarpe a volte, di fronte alle altre, si alzavano sulle punte.

Non calciavano un pallone. Non c’erano grida, non c’erano tonfi, né boati.

Solo quelle quattro scarpe, intrecciate a due a due.

Solo dei sussurri lievi e ogni tanto, così le pareva di sentire, il fruscio di una carezza.

A un certo punto accadde una cosa inaspettata: quelle scarpe le si avvicinarono, vide un ginocchio a terra e una mano che piano piano si accostava a lei. Quella mano le sfiorò lo stelo. Ebbe un brivido, la colse il terrore di essere strappata via. Pensò al prato, ai suoi giorni tutti uguali e in un attimo se ne innamorò. Le piombò addosso come un pugno l’indifferenza del piccolo mondo che abitava, e ne provò dolore.

Poi udì una voce che diceva: “Questa è per te, ma la lasciamo qui, la lasciamo vivere”.

Un’altra voce, soave e calda come la luna nelle notti d’estate, rispose: “È nostra, ricordatela, torneremo a vederla”.

Quel giorno la margherita scoprì di essere felice.

Non era più una delle tante. Era lei, proprio lei il fiore vivo che le quattro scarpe bianche avevano scelto. Era felice che quei passi attenti, grati di ogni raggio di sole e di ogni alito di vento che potevano condividere, si fossero accorti di lei. Sarebbero tornati, era certa.

Da quel giorno, ogni giorno li aspetta, coi suoi petali bianchi, inebriati di luce, finalmente fieri della propria preziosissima unicità.

Agnese Ilaria Telloni, ricercatrice in Didattica della Matematica, è sempre in bilico fra la fascinazione della matematica e la passione per la letteratura. Ha pubblicato articoli e saggi di ricerca scientifica. Nel 2011 ha vinto il premio L’Oreal Italia “Per le Donne e la Scienza”.

Selezione di racconti da XI Concorso “Il Corto letterario e l’illustrazione”, NARRATIVA (Scrivere il corto) RACCONTI D’AMORE ( Sezione dedicata a Maniglio Botti)

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Di Gaetano Lo Castro

“Il Signore Dio fece germogliare dal suolo ogni sorta di alberi...” Genesi (2, 9)

C’era una volta, vicino a un paesino di campagna, un castagno millenario.* Il proprietario del terreno su cui sorgeva non era certo un tipo simpatico. Infatti una mattina apparve armato di una grossa motosega.

“Sei una montagna di legno, mio caro castagno. Il tuo pregiato legname mi farà guadagnare molti soldi.”

E mise in moto la rumorosa motosega. Proprio allora giunse un gruppo di ragazzi del paese vicino che era solito sostare sotto il vetusto vegetale. Tutti capirono il cattivo proposito del proprietario.

“Ma ha davvero intenzione d’abbatterlo?!”

“Io non devo render conto a voi di ciò che voglio farci del mio albero.”

“È un castagno millenario, e non ce ne son molti nel mondo!”

“Andate via dal mio terreno!”

I ragazzi gli si pararono davanti, determinati a difendere il raro albero, al quale erano assai affezionati. “Non lasceremo tagliare il castagno.”

“Per noi lui è come un vecchio compagno.”

“E arricchisce tutta questa campagna.”

L’uomo avanzò puntando contro di loro i rotanti denti della sua motosega.

“Qualcuno corra a cercare aiuto!”

“Ci vado io!”

Vennero diverse persone, tra cui alcune guardie municipali e il sindaco. L’uomo agitava la motosega sempre più da presso ai ragazzi, addossati contro il tronco del castagno. Fu disarmato. “Non potete proibirmelo! È di mia proprietà! Voglio vedere l’avvocato!”

“Questo è vero.” disse il sindaco. “Secondo la legge gli è lecito, anche se è una barbarie abbattere un albero millenario.” “Allora l’albero è perduto?” gli domandò con tristezza una ragazza.

“Purtroppo il proprietario è lui e può farne quello che vuole.” L’uomo ridacchiò.

“Un modo ci sarebbe per salvare l’albero!” esclamò un ragazzo. “Se il castagno lo compra il comune nessuno potrà più gettarlo giù!”

I presenti assentirono entusiasti. Il sindaco chiese al proprietario se era disposto a vendere il pezzetto di terreno interessato. L’uomo pensò che in questo modo poteva ottenere lo stesso un ottimo guadagno, risparmiandosi la fatica di tagliare il castagno. I due si misero d’accordo sull’importo. Tutti rimasero soddisfatti. In particolare i ragazzi, felici per esser riusciti a salvare il loro amico albero. Si presero per mano e cinsero il suo grosso tronco con un unico abbraccio. Il vecchio castagno sentì sulla sua rugosa corteccia il calore e l’amore delle loro giovani braccia.

“Non cade foglia, che Dio non voglia.” commentò commosso.

* Il Castagno dei Cento Cavalli si trova sulle pendici dell’Etna.  Con i suoi circa 4.000 anni è uno degli alberi più longevi d’Europa.

Gaetano Lo Castro. Autore siciliano, scrive romanzi, racconti, pièce, poesie. Molte sue opere sono state premiate e pubblicate in antologie. Un suo romanzo si è classificato 1° in un premio per inediti, è stato pubblicato, ed è giunto finalista in un altro concorso.

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di Valentina Ciocca

Mi accingo a scriverti questa lettera mentre tu sarai già salito sul treno.

Dopo la tua partenza gli ingranaggi del tempo devono essersi inceppati, sono passate solo poche ore o forse tutta l’eternità? Mi stringo al desiderio di te, immagini e pensieri indelebili scivolano via insieme alle lacrime. Ci siamo giurati amore eterno, rammenti? Sotto le fronde del salice piangente abbiamo suggellato il nostro impegno.

Sulle mani tracce invisibili di te, nel cuore il solco profondo della tua assenza.

Sorrido, ripensando ai nostri primi incontri, mani intrecciate e grandi speranze, baci umidi sotto la pioggia, ritagli di felicità nel grigiore quotidiano. Ci siamo amati fin da subito, con trasporto e dedizione, protagonisti di una storia romantica d’altri tempi, fatta di corteggiamenti, dichiarazioni, boccioli di rose. Un amore da favola, temo però che non avrà un lieto fine. Ti amo tra le ombre della sera e il sorgere del sole, quando l’anima è più fragile. Sei il mio tutto che riempie la vita di sapore. Conosco il suono del tuo cuore, onda dell’oceano che ritmicamente si infrange sugli scogli. Ti amo così, incessantemente. Sei dentro di me, presenza indissolubile, ti sento addosso mentre lascio fluire il respiro e la nostalgia di te. In fondo cos’è l’amore? Sentimento e dono, emozione e impegno. Siamo anime erranti legate da un filo invisibile, siamo l’urgenza di appartenerci e la necessità di incatenarci i cuori. Il destino ha disegnato per noi una trama diversa, ma io non sono pronta a lasciarti andare.

Il tempo forse mitigherà la sofferenza, modellando i ricordi, restituendomi un’immagine di te ancor piu’ dolce e forse ci darà le risposte che cerchiamo.

Mi immergo nella malinconia, mi lascio cullare dal calore dei ricordi.

Se l’amore è un viaggio, il nostro non è ancora giunto al capolinea, ma ha preso una deviazione, inaspettata o forse no. Provo ad accettare quello che non sarà.

Vorrei abitare nei tuoi sogni e sussurrare al vento la nostra melodia.

Sono certa che se ti metti all’ascolto, mi puoi sentire. Avverto segni inconsistenti di te nella brezza della sera, nella luce calda del tramonto. Cercami nell’andito più segreto dei tuoi pensieri, mi troverai lì, paziente, ad attenderti e forse ci ritroveremo ad accarezzarci le anime.

Arrivederci, amore mio. Abbi cura di noi.

Valentina Ciocca è laureata in giurisprudenza, vive in Val d’Ossola e fin da bambina coltiva la passione per i libri e la scrittura. Nel 2024 ha ottenuto due riconoscimenti all’interno della settima edizione del Premio letterario Dentro l’amore.

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di Gianmarco Pellattiero

Agata Battaglin, nata il 30 novembre 1927 e morta il 28 aprile 1945. Fisso una delle tante lapidi della Seconda guerra mondiale, presenti nel cimitero. Il loro numero supera quello delle persone sepolte negli ultimi settant’anni. Un anziano si avvicina; stringe, fra le sue mani, una peonia. Fatica a camminare, si appoggia a un bastone.

“Mi scusi.” Mi sposto di lato. L’uomo infila il gambo nel vaso contenente altri fiori.

“È una sua parente?” L’uomo sospira ma non risponde. Si protrae con il corpo in avanti e bacia la foto, ormai sbiadita. Lo aiuto a rialzarsi. Lo osservo con attenzione: è più alto di me, nonostante la schiena presenti una evidente scoliosi.

“È tutta colpa mia.” Scorgo alcune lacrime correre lungo il viso, cesellato dalle rughe e dalla sofferenza. Provo un senso di disagio.

“Le chiedo scusa, non volevo metterla in imbarazzo.”

“Non ho mai confessato il mio peccato, nemmeno al prete. Sento che è il momento giusto. Con un forestiero sarà meno complicato.”

Non so cosa rispondere. Annuisco.

“Era il 28 aprile 1945, gli americani avanzavano e i tedeschi fuggivano. Ero un partigiano e con i miei compagni abbiamo fermato undici nazisti. Si sono arresi senza combattere, ma la nostra sete di vendetta ha prevalso sulla giustizia. Si chiederà cosa c’entra Agata. Lei, povera stella, ha cercato di difendere August, uno dei soldati pronti per la fucilazione. In ginocchio, ha abbracciato le sue gambe e continuato a ripetere: vi prego, lui no, è diverso, non sparate. Ho osservato la scena senza intervenire e uno dei proiettili ha colpito la ragazza. Da quel momento è iniziato il mio calvario.”

Piange il partigiano. Piange l’essere umano. Si appoggia a me. Lo sorreggo.

Vorrei consolarlo, dirgli che è meritevole del perdono di Agata e dei suoi familiari. Le mie parole si bloccano in gola; in fondo sono soltanto uno sconosciuto, un curioso, un turista. Ebbene sì, sono un turista di mezza età che visita i cimiteri, noncurante della sacralità dei luoghi e delle storie intrise di sofferenza e di sangue, che si celano dietro a ogni nome e a ogni lapide. Viste le precarie condizioni dell’anziano, mi offro di accompagnarlo a casa con la mia auto. Arrivati a destinazione l’uomo apre la portiera, cammina incerto per qualche metro, infine ritorna sui suoi passi e mi invita ad abbassare il finestrino.

“Non le ho detto la cosa più importante. Agata è mia sorella. È morta per amore, si è dimostrata più coraggiosa di me.” Vedo la porta chiudersi dietro l’anziano. Per lui la guerra non è mai terminata. Riuscirà a firmare l’armistizio con sé stesso e morire in pace?

Gianmarco Pellattiero vive a Malnate. Nel suo repertorio sono presenti numerosi racconti brevi, poesie, monologhi teatrali e alcuni romanzi, tra cui “E mi ritrovai a Malnate” del 2021 e “Cloe e l’enneagramma d’0ro” del 2022.

Selezione di racconti da XI Concorso “Il Corto letterario e l’illustrazione”, NARRATIVA (Scrivere il corto) RACCONTI DI GUERRA E DI PACE ( Sezione dedicata a Maniglio Botti)

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