Il Racconto del giorno feriale

Il Racconto del giorno feriale

a cura di Gian Paolo Zoni


GREEN CARD

Stanotte c’è stato il temporale. Il cielo è ancora grigio e intorno tutto dice che l’autunno è alle porte: lo dice il calendario appeso alla parete, lo annunciano le colline sopra la città che sfoggiano nuovi colori e i negozi che espongono abiti in maglia accanto a ciò che resta dei saldi estivi. Il passaggio di stagione è vicino, ma a lei piace quest’atmosfera sospesa, incerta. Ben si sposa con un carattere indolente. L’aria frizzante del mattino le spettina i capelli sciolti. Si specchia in una vetrina e con un gesto veloce li lega con un elastico. E’ bella Astrid, di una bellezza esotica: capelli ricci corvini, pelle ambrata e grandi occhi verdi.  Suo padre non l’ha conosciuto: avventura estiva di sua madre a Cuba, nella vacanza dopo la maturità. Ha un carattere schivo, pochi amici, una storia nata tra i banchi di scuola che dura più per abitudine e pigrizia che per convinzione, un lavoro che non la soddisfa e prossima ai trent’anni. Ha un groppo in gola e mordicchia le unghie.  Ha bisogno di cambiamento. Lo pensa, lo dice, ma non trova il coraggio.

Si sente in ritardo nella vita. “L’orologio biologico corre”, le fa eco sua madre, che mai per un attimo si è pentita di averla tenuta e sembra una sua coetanea. Ripensa alla proposta di matrimonio di Mario, alla quale aveva risposto in modo ironico con un “Mi metterai sulla croce a trentatré anni, come Cristo”. Lo feriva a volte per punirlo di non essere più capace di stupirla. Si siede al tavolo del solito baretto e ordina il solito cappuccino con poco caffè, mentre sfoglia quel che resta di un quotidiano stropicciato da più mani.  L’occhio cade su un trafiletto: il bando per l’estrazione delle 50.000 Green Card messe a disposizione dal governo americano.

Le viene in mente un film romantico degli anni ‘90, con quell’attrice dai capelli simili ai suoi. Un matrimonio di convenienza sfociato in un amore impossibile.

E’ la fine di settembre, la fine di un’estate monotona trascorsa senza quasi lasciarne ricordo, una delle tante, con poche fotografie e sempre uguali. Chissà prima o poi anche lei andrà a Cuba, magari in viaggio di nozze. Le viene quasi da ridere.

Cerca per curiosità la data di scadenza del bando. La tentazione di iscriversi è forte, così come lo è la paura nel futuro, che immagina troppo simile al suo presente. Come dirlo agli altri? A Mario, a sua madre… In fondo c’è tempo per le confessioni: l’estrazione avverrà fra uno o due anni; può anche non dirlo, sarà il suo segreto. Si iscrive per gioco, ma in fondo ci crede. La carta è verde, come la speranza.

Autore: Anna Rosa Confalonieri


COMPAGNI DI SCUOLA

Ed erano passati davvero tanti anni, e non sembrava, ma erano trenta, e come capita in queste circostanze c’era stato uno che si era preso la briga e aveva fatto le convocazioni, e così quella sera ci trovammo come i reduci di un’impresa, e l’impresa non era quella di avere tanti anni prima superato un esame di maturità, ma l’impresa era proprio quella dei trent’anni che erano seguiti, e questo lo capimmo appena ci vedemmo, e io, tranne Sorbaro che lo vedevo quasi tutti i giorni, il Fassi e la Binda che pure qualche volta li incontravo, per gli altri erano trent’anni che non vedevo quelle facce e quei corpi, e riconoscerli non era poi tanto facile, c’erano dentro l’essere e il divenire, e a parte gli inevitabili ricordi, quello a cui pensavo quella sera erano quelle mie compagne di scuola che avevano partorito nuove vite, e mi sembrava la cosa più incredibile, e guardandole le vedevo in quel momento, e certo non come era veramente stato, ma come io mi immaginavo, e non erano i figli in sé o la retorica della famiglia a interessarmi, e i figli poi li ho sempre ritenuti un’illusione, no quello che mi impressionava era proprio l’atto di quelle ragazze che erano diventate donne… e poi la sera era passata come una  delle tante, e il più simpatico fu Muser quando tirò fuori da tasca il foglietto con il compito di matematica che la Marika gli aveva passato trent’anni prima, e lo teneva con due dita come una reliquia, e diceva… questo è il tassello senza il quale io avvocato non lo diventavo, e aggiungeva che tutte le volte che trovava un insegnante gli diceva mi raccomando, li lasci copiare quei ragazzi, non faccia loro mancare nessun tassello che li può condurre oltre, e altre sorprese mi attendevano, inaspettate, quella sera, e molte rimasero inespresse, e me ne tornai a casa felice ma sgomento, consapevole della mia pochezza, perché mi apparvero i limiti dello scrivere, e tutte quelle pagine, tutti quei romanzi che avrei voluto e potuto scrivere, in realtà erano già stati scritti.

Autore: Fiorenzo Croci


LA PAGINA BIANCA

Di una cosa vi sarei riconoscente, e so di apparirvi insensato, ma vi invito ad avere rispetto per le pagine bianche e perciò a non gettare i fogli di carta, essi hanno due facciate e su ognuna scorre la vita… E mi ricordo, e non era molto tempo dopo la guerra, io andavo all’asilo e non sapevo nemmeno che cos’era la guerra, e ai miei fratelli e a me non mancava niente, e i quaderni per tutti papà li portava a casa dall’ufficio, e su di essi facevo i miei disegni perché i bambini si esprimono con il disegno, e poi a otto anni scrissi la mia prima poesia, e la scrissi su una carta che avvolgeva il formaggio, quel giorno erano finiti i quaderni, e io sono arrivato alle scuole superiori senza mai comprarne uno, e a sedici anni di poesie ne scrivevo una marea e le regalavo a una ragazza, e così non ero mai solo e avevo sempre la speranza dentro di me, crescevo l’amore, e sentivo di diventare qualcuno, e la libertà me la conquistavo, e su quelle pagine bianche vedevo una strada, era la mia, quella e non altre, dal niente veniva fuori la vita dei pensieri, e i pensieri travolgevano la vita, erano loro la vita, e davanti alla pagina bianca si emozionavano, e anche quando divenni adulto i pensieri davanti a quella pagina si emozionavano come bambini, e come il fiume a un certo punto avverte il rumore del mare vicino a sé allo stesso modo le pagine bianche sentivano l’infinito, e riempiendosi, finalmente scritte, ritornavano da dove erano partite, da quell’unica pagina bianca che le avvolgeva tutte quante.

Autore: Abramo Vane


LA CITTÀ GIARDINO

Vivevo, un tempo, in una città chiamata La città giardino, era unica al mondo, e se andavi su una delle colline che la circondavano ti accorgevi che era completamente avvolta dal verde… e gli abitanti avevano un vero e proprio culto per gli alberi, ognuno che possedeva un giardino o un fazzoletto di terra vi piantava degli arbusti, delle azalee o, se possibile, degli alberi secolari, e chi viveva in condominio si preoccupava di tenere il balcone sempre fiorito, e così tutti quei davanzali, piccoli giardini e parchi, messi insieme, erano una città, e negli anni la vita degli alberi si era fatta tanto importante da divenire storia, e allora era stato deciso di mettere una segnaletica speciale, e agli incroci delle strade il turista, oltre l’indicazione delle pensioni e dei ristoranti, trovava quella degli alberi più importanti … Liquidambar 1888 Villa Fiorita in via delle Betulle 11, Faggio rosso 1871 in via della Spiga giardino del signor Zanzi, Cedro del Libano 1859 parco del Gran Consiglio… e a proposito di quest’ultimo, si raccontava che il sindaco della città, quando non sapeva che decisione prendere, andava a sedersi tutto il pomeriggio sotto i suoi rami e alla sera, in assemblea, aveva sempre la soluzione giusta, e allora l’opposizione, per avere anch’essa una parte attiva nel governo cittadino, chiese, e ottenne, che il consiglio comunale si svolgesse sotto quell’albero, e da allora tutte le discussioni, liti, giochi di potere scomparvero, era come se quel grande albero li assorbisse insieme all’anidride carbonica e li trasformasse, e la cittadina crebbe e si sviluppò in pace, ogni giardino aveva i suoi colori e profumi, ognuno era differente dall’altro, e tutti insieme formavano una città.

Autore: FMK

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