Prima di tutto a Jean che ha avuto questa brillante idea. Perché qualche volta fregarsene della scaramanzia è la cosa migliore. O no? Dunque questo discorso da vincitori, senza sapere ancora gli esiti, è dedicato a noi. A quelli che ci hanno creduto, a me, per farmi forza, che parlare davanti alla gente è sempre difficile… a Victoria che, nonostante il nome, è da cinque anni che ci prova ma non ci è mai riuscita; a lei dunque, nostra capitana. A Gianluigi, l’ultimo arrivato, che ha dato un tocco di modernità che noi boomer ce lo sogniamo… A Franca che non mancava mai di portare il caffè e una torta ogni sera che ci trovavamo a lavorare fino a tardi…. A Ludovico che da gran professionista qual è, s’è voluto far pagare, alla faccia nostra che abbiamo fatto tutto gratis… A Gentile, che si arrabbiava quando parlavamo d’altro durante le riunioni… A Diego che ha fatto il grande sacrificio di lasciare il suo amato torneo di pallamano perché un ingegnere nel progetto ci voleva e, a parte lui, non ne abbiamo trovato nessun altro… A Eleonora che, nonostante tre figli piccoli e un marito sempre in viaggio, ha messo a disposizione la sua taverna; il muro è ancora tappezzato di tutti i nostri disegni, ricordiamoci di liberarlo… A Narciso che, in lacrime, all’inizio dell’anno, ci ha detto che non poteva continuare, che il suo sogno era un master all’estero e così l’abbiamo salutato con un grande in bocca al lupo… A Mattia che una volta, per farci vedere un video dal contenuto sul quale sorvolerei, ha rischiato di cancellare tutto il lavoro che avevamo fatto… E infine a Tommaso, che se ne stava sempre in un cantuccio in silenzio, ma non si perdeva mai un incontro… ecco sì, forse lui più di tutti merita questo grazie perché, questa mattina, mi ha confessato una cosa che vi lascerà allibiti… Gli abbiamo sempre voluto un gran bene sebbene non partecipasse direttamente al progetto ma averlo lì era una sicurezza insolita che abbiamo apprezzato con il tempo… Beh, questa mattina Tommaso mi ha confessato che lui, incaricato di inviare il progetto, non l’ha fatto. Sì, avete capito bene. Tommaso, guardandomi negli occhi, mi ha detto in tutta sincerità: “La mia città del futuro siete voi, amici miei. Temevo che con la vincita del concorso, dopo una grande festa, queste magiche serate si sarebbero dissolte e allora non ho spedito nulla”… Caro Tommaso, “La mia città del futuro siete voi”, quanta bellezza… grazie! Noi comunque ci riproveremo, che dite? Altre serate brulicanti ci aspettano, se saranno le ultime non lo sappiamo… Ora però vorrei chiudere annunciando una certezza: guarderemo tutti la posta inviata più spesso, vero? E un dubbio: tutto può essere progettato o certe cose vengono così, in modo naturale? Grazie a tutti.
Racconto di Paolo Negri, dipinto di Pin8

La verità sul cappotto di Knut, rivelata da un gallese
Cosa gli faceva più male? Le bugie della madre, quel che gli aveva detto il gallese dalla barba rossa o gli occhi sprezzanti di lei?
Guardava fisso il suo primo boccale di birra, lo strinse con la volontà di frantumarlo in mille pezzi. Nel mentre il suo interlocutore si fermò, sospeso sulla parola “Oppure.”.
Oppure che cosa? Aveva aspettato sedici anni per quel momento. Sedici anni per indossare quel cappotto odore del mare in tempesta, tenuto lì a dormire nell’armadio, spazzolato tutte le domeniche, unico ricordo tangibile di un padre scomparso troppo presto.
Certi giorni si inginocchiava persino al suo cospetto, santificando quell’indumento logoro, stinto ma pieno di avventure vissute. Gli avrebbe portato fortuna.
“Ma non vedi che sei troppo piccolo? Non escono neanche le mani dalle maniche! Affondi lì dentro. Mi fai tanto ridere!” gli ripeteva la madre stringendolo tra le braccia e raccontandogli di come suo marito si era meritato quel cappotto.
Lui quella storia la sapeva a memoria e se la ripeteva di continuo. E quando ebbe l’età per iniziare a lavorare giù al porto, mestiere umile e di fatica, sorrideva al pensiero che tutti conoscessero com’era andata, perché lui era il figlio di Knut. E Knut vestiva un abito da capitano avuto in modo da esserne orgogliosi.
Così aveva aspettato che le sue braccia fossero abbastanza lunghe e le guance un minimo irsute per entrare nel bar dei pescatori con la testa alta.
Ma quando svelò quella storia alla cameriera dagli occhi verdi e i capelli di polpo, sua innamorata che non vedeva l’ora di approcciare, tutto mutò.
“Quanto sei ingenuo! Qua tutti conoscono chi era veramente tuo padre… Solo tu ne conosci un’altra versione. Falsa come le promesse d’amore”. E la birra, battuta malamente sul tavolo, fece un’onda che andò a spegnersi sulla lana delle maniche.
Lo stupore misto allo sconforto fu invaso da un uomo che ogni tanto incrociava al porto. “Senti, io lo conoscevo bene il tuo babbo. Ho ascoltato cosa lei ti ha detto. Beh…”. E gli raccontò com’era andata realmente la vicenda.
La pancia del giovane cominciò a stringersi, aggrovigliarsi. Ora non era più solo delusione e sorpresa ma dolore, rabbia e odio.
“Lo so, tutto questo fa male. Puoi maledire tuo padre, tua madre, la cameriera, me, la povertà, la fame e cosa costringe a fare…”. Poi venne quell’”oppure”.
Guardava fisso il suo primo boccale di birra, lo strinse con la volontà di frantumarlo in mille pezzi. “Oppure puoi fregartene di quello che pensa la gente e indossare con orgoglio la verità. È così che si diventa capitani, fidati! E te lo dice uno che non ne ha mai avuto il coraggio. Forza ragazzo!”.
E il gallese dalla barba rossa, dandogli una pacca sulla spalla, se ne andò.
Racconto di Paolo Negri